Mentre il montacarichi – una specie di barca metallica rettangolare da cui sporge l’intero busto degli occupanti – sale sferragliando verso l’interno della cupola nella cattedrale di Noto, cittadina barocca in provincia di Siracusa protetta dall’Unesco come patrimonio dell’umanità, una forza antica invade gli occhi.

Le panche dei fedeli, giù, diventano sempre più piccole. Al contrario delle figure dei quattro evangelisti, affrescate da poco nei pennacchi, che avvicinandosi svelano l’imponenza dei loro sei metri e mezzo di muscoli michelangioleschi. Ci passiamo accanto, fino quasi a sfiorare il giallo arancio del manto di Giovanni.

Superato il tamburo, e lasciato il montacarichi, ci si inerpica su piccole scale che conducono alla cupola, metà della quale è già occupata da sette dei dodici apostoli. Oltre ai restanti, manca ancora la Madonna. Entro l’anno la Pentecoste sarà terminata.

Oleg Supereco, la nostra guida, sembra non curarsi dei 40 metri che lo separano dal pavimento. Si muove a suo agio sopra il ponteggio rotante che si è fatto costruire apposta dalla stessa azienda che ha realizzato l’impalcatura per i restauri del Parmigianino nella chiesa Santa Maria della Steccata a Parma.

Oleg ha 36 anni e viene da Mosca, ma da circa un decennio vive in Italia, attualmente a Mogliano Veneto, in provincia di Treviso. Ha preso persino l’accento e quando va a bere con gli amici siciliani, li invita a prendere un’“ombra” o un’“ombreta”. Oleg è un pittore. È l’artista incaricato di affrescare i pennacchi e la cupola della chiesa Madre di San Nicolò, la cattedrale di Noto crollata in una notte del 1996 e riconsegnata come nuova nel 2007.

Ha iniziato la sua opera l’anno scorso. La tecnica dell’affresco con la quale sta abbellendo l’edificio sacro ormai è stata pressoché abbandonata, sia per la difficoltà del procedimento (una volta stesa la malta sulla parete, si ha tempo 2-3 ore per dipingere prima che l’intonaco si asciughi) sia per la mancanza di grandi committenti. Quella di Noto, quindi, è una sfida. Oltre che una di quelle occasioni che si presentano una sola volta nella vita.

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A chi gli chiede perché dipinge, risponde: «Perché non posso non dipingere», oppure: «La pittura è la mia preghiera attraverso cui comunico con il Signore e Lui comunica con me. Perché quello che faccio non lo faccio io, non lo detto io. Fa sempre Lui attraverso di me. A volte non so nemmeno come mi riescono certe cose. Io sono solo uno strumento». Se gli domandano, invece, quando ha capito che sarebbe diventato un pittore, non ha dubbi: «Da sempre».

 

La prima volta che suo padre, accorgendosi dell’interesse del piccolo Oleg per le arti figurative, lo portò in un museo, lo accompagnò a visitare soltanto le sale dei moderni. Passando per i corridoi, Oleg intravide, in un’altra zona separata, alcuni quadri particolari che raffiguravano volti seri su fondi dorati. Nonostante le sue insistenze, il padre non gli permise di andare a osservarli da vicino. Erano gli anni prima della Perestrojka. Quello fu il primo incontro dell’artista con le icone russe. Un incontro che confermò una passione sorta a 5-6 anni, sfogliando una rivista che riportava i grandi affreschi di Raffaello e Michelangelo.

 

«Fui preso subito da quella forza espressiva – ricorda -. Non mi hanno mai entusiasmato i quadri degli impressionisti o l’arte sovietica che parlava del quotidiano. Né la pittura realistica in cui ci sono i “veci” seduti che bevono le “ombre”. Chiacchiere, insomma. Sono stato colpito solo dai volti delle icone, qualcosa di superiore, non fatto da mani d’uomo, e dalle figure di Michelangelo e Raffaello. E allora lì è scattato qualcosa. Ho detto: io devo fare quello».

 

Dopo il liceo artistico, Oleg si iscrive all’Accademia di Belle arti di Mosca. Avviene così l’incontro con un maestro, Ilja Glazunov, attuale rettore dell’Accademia e uno dei pittori contemporanei più importanti della Russia. «Un combattente contro le forze oscure – dice Oleg -, che afferma il Cristo ogni giorno con la sua arte. Un uomo grande, che va controcorrente, di fronte al quale ci si sente piccoli. Una di quelle persone che capita di incontrare ogni cento anni. Lui forse è stato l’unico che mi ha capito, che mi ha anche salvato».

 

Infatti, nonostante il forte legame con la tradizione russa, Gladunov intuisce le potenzialità del giovane allievo, accusato dagli altri insegnanti di essere troppo occidentale e troppo italianizzato. Artisticamente troppo cattolico. Ma il maestro lo difende e invita gli altri a lasciarlo stare in pace. Oggi, tra i tanti studenti che ha avuto nel corso della sua lunga carriera, Gladunov ne nomina solo tre o quattro. Oleg è tra questi.

 

Nel 1999, conclusi gli studi a Mosca, grazie a una borsa di studio approda all’Accademia di Belle arti di Venezia dove otterrà nuovamente la laurea con il massimo dei voti. «Anche in Italia sono stato fortunato. Ho avuto almeno tre grandi amici. Uno di questi è monsignor Carlo Chenis». Chenis, eletto vescovo di Civitavecchia-Tarquinia nel 2006, è morto il 19 marzo di quest’anno. È stato segretario della Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa e membro della Pontificia commissione di archeologia sacra. È lui a fare il nome di Oleg per gli affreschi della cattedrale siciliana.

 

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Il 26 gennaio 2010, indirizzando ai fedeli della sua diocesi una lettera con la quale comunicava di avere un tumore invasivo, scriveva: «Questa settimana sono entrato nel tunnel chemioterapico per tentare di arginare la malattia, per quanto clinicamente possibile. È davvero un tunnel oscuro, pieno d’imprevisti e d’incertezze. Seguendo questo mio percorso faccio esperienza del dissesto organico nel quale sono caduto. In siffatta situazione sto riscoprendo quanto complesso e mirabile sia il nostro organismo nel suo ordinario e silenzioso funzionamento».

 

Questa scoperta, di un ordine dentro il caos e la sofferenza, per analogia è la stessa che fa Oleg nel suo itinerario espressivo, aiutato anche da monsignor Chenis: «I cristiani – sostiene il pittore – hanno aggiunto qualcos’altro all’arte antica greco-romana: il “bello” della sofferenza. L’arte cristiana scopre un bello anche nel brutto. È una bellezza che trasforma tutto. Il contrario dell’arte moderna, che trova il brutto nel brutto. E perfino il brutto nel bello».

 

Un mese prima che il vescovo di Civitavecchia-Tarquinia morisse, Oleg è andato a trovarlo: «Monsignor Chenis mi ha fatto capire che anche nella chiesa cattolica, e non solo in quella ortodossa, ci sono le persone sante. Aveva un senso profondo dell’arte cristiana e mi ha aiutato nel mio cammino personale e nelle mie ricerche sui simboli».

 

Ma esiste ancora un’arte che possa considerarsi cristiana? Sembrerebbe di no, a giudicare da tante opere architettoniche commissionate per i luoghi di culto. «Questi architetti sono innamorati di se stessi – taglia corto il pittore -. Esprimono se stessi. Credono di essere dei geni, ma una volta non era così. Una volta gli artisti erano servitori di Cristo, di Dio. Ma se uno nell’arte non serve Cristo, chi serve? Il suo avversario. Nel mondo c’è una lotta continua tra il bene e il male, tra Cristo e l’anticristo. E oggi l’arte è diventata anticristiana. Le forme moderne che dicono “arte, arte, arte” sono solo provocazioni. Sono solo distruzione». È l’estetica del brutto che avanza, pervasa, secondo il pittore moscovita, da una continua violenza in cui l’erotismo diventa pornografia e Cristo stesso è ritratto molte volte come una sorta di indemoniato.

 

«La cosa più grave – aggiunge – è che i giovani non sono più in grado di vedere la bellezza. Non riescono più a “leggere” la bellezza di un semplice dipinto del 400 o 500. Sembrano tutti arabi che, guardando queste opere, non sanno più che cosa siano. È stata cancellata la tradizione. Il bello di oggi coincide con il kitsch, che vuol dire cattivo gusto. E se oggi va così tanto di moda, significa che stiamo perdendo il gusto nel costruire e nel fare». Non c’è futuro, allora, per l’arte, e per quella cristiana in particolare? «Ci deve essere, per forza. Altrimenti…», sospira Oleg Supereco senza completare la frase e alzando lievemente la testa. Proprio come nell’espressione del San Giovanni raffigurato in uno dei pennacchi della cattedrale di Noto, a cui somiglia in modo impressionante.

 

(Carmelo Greco)

 

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