Ludovico di Leva è in carcere da 24 anni. La prima volta che è entrato in prigione era ancora minorenne. Invece che sui banchi di scuola, ha passato l’adolescenza tra le sbarre. E non sempre i suoi «maestri», le persone incontrate nel penitenziario, sono state delle figure positive. Almeno fino a quando ha conosciuto i volontari della cooperativa Giotto, grazie a cui la sua vita è cambiata per sempre, al punto che quest’anno è uno dei 3.142 volontari del Meeting 2010. Di quel delitto, che non vuole neanche nominare, compiuto quando era ancora un ragazzino dice: «Io ci penso sempre. Se potessi tornare indietro ricomincerei da capo, ma con la mentalità di oggi. Se mi dicessero di tornare indietro, ma con la mentalità che avevo prima di entrare in prigione, non accetterei mai».
Per quell’errore, per quanto grave, degli anni dell’adolescenza Ludovico di Leva dovrà passare tutta la vita in prigione. «E’ giusto punire chi sbaglia, ma una sventura come la mia non l’augurerei neanche al mio peggior nemico», la sua riflessione. Per Ludovico di Leva, la cooperativa Giotto è stata una seconda chance inaspettata, per una persona che agli occhi di tutto il mondo era finita. Senza scorciatoie, perché non gli ha tolto neanche un giorno degli oltre 30 anni che deve ancora trascorrere in prigione. «Ciò che fa la differenza – sottolinea di Leva – non è soltanto il fatto di avere un lavoro, ma anche dei veri amici. Quando è morto mio padre non lo vedevo da sette anni e non mi è stato possibile incontrarlo neanche per l’ultima volta. Nicola Boscoletto (il presidente della cooperativa Giotto, ndr) e altri tre volontari sono venuti a trovarmi in carcere per farmi compagnia. Sono cose come questa che, nel tempo, mi stanno cambiando. Prima di iniziare a lavorare nella Giotto, nel 2002, ero pieno di cattive intenzioni. Ora non più».
Di Leva è uno degli otto carcerati che lavorano al Meeting come volontari, cui si aggiungono quattro ex detenuti che avevano partecipato all’edizione del 2008, quella della mostra «Vigilando redimere», e che anche una volta tornati in libertà non sono voluti mancare all’appuntamento riminese. Tra loro anche Youssef Smin, marocchino e musulmano praticante, che al Meeting sta osservando il Ramadan pur lavorando nello stand della ristorazione. «Quello che mi ha colpito, venendo per la prima volta al Meeting, è l’umanità delle persone che ho incontrato, non importa se di un’altra religione rispetto alla mia. Il Meeting è una realtà bellissima, un conto è sentirne parlare e un’altra vederlo: anche noi musulmani abbiamo provato a fare qualcosa del genere, ma non siamo mai riusciti a fare le cose così in grande».
«HO PAURA DI TORNARE A CASA MIA» – Paride Memmo, 39 anni, è tornato in libertà a marzo, ma nel piccolo paese in cui è nato non osa quasi tornare, per paura del giudizio della gente. «Quando nel 2008 sono venuto per la prima volta al Meeting mi sentivo una persona disagiata e diversa dagli altri ed ero molto diffidente – osserva -. Invece, mi sono accorto che nessuno mi giudicava in modo negativo, e che molti di quelli che incontravo, il giorno dopo tornavano a cercarmi. E così ho iniziato a desiderare di tornare, anche perché ogni anno non è mai lo stesso, lo vivi in modo completamente diverso».
Ye Wu, cinese di origine buddista, 28 anni, da settembre ha iniziato un percorso come catecumeno per diventare cristiano. Anche lui è entrato in carcere giovanissimo, a 19 anni, per avere commesso un omicidio. «Subito dopo l’arresto mi è balenato un pensiero: “La mia vita è finita”. E invece, se guardo a tutta la strada che ho fatto in questi nove anni, capisco che da solo non ci sarei mai riuscito, e che quindi qualcosa di grande mi ha aiutato. Non mi è apparso Dio, ho incontrato delle persone». E aggiunge Ye Wu: «Gli sguardi che ho trovato erano così affascinanti che sono nate tante amicizie. Era difficile coltivarle, almeno finché ero in carcere, ma mi tenevo le fotografie di tutte le persone incontrate per non dimenticarle. Non ero più solo, ed è questo che mi affascina del cristianesimo: la possibilità di affrontare insieme le domande sul senso della vita, cui è così difficile dare una risposta se nessuno ti aiuta a farlo».
«LA RESPONSABILITA’? E’ DEI DETENUTI» – La sera gli otto detenuti che lavorano al Meeting tornano al carcere di Rimini, per poi rientrare in Fiera al mattino. Ad accompagnarli ci sono il commissario Valentino Di Bartolomeo e l’ispettore capo Rino Gaeta, entrambi con le divise delle guardie carcerarie e la pistola d’ordinanza. «Il nostro compito è facilitare le operazioni – spiegano i due -, ma in realtà il nostro lavoro non consiste nel sorvegliare gli otto carcerati. Anche perché la responsabilità di scegliere se comportarsi bene o male è dei detenuti: qui al Meeting si giocano un pezzo della loro libertà, e se tentassero la fuga sprecherebbero quella che è un’opportunità per loro. Noi ci fidiamo di loro, perché prima o poi questi ragazzi usciranno di prigione, e devono imparare a ritornare alla vita normale. E soprattutto, quando tra una settimana rientreranno nel carcere di Padova, dovranno essere i “propagandisti” tra i loro compagni di cella della possibilità che è stata loro offerta».
Gli otto detenuti sono liberi di muoversi come vogliono nei padiglioni del Meeting, nessuno li sorveglia. «Tutt’al più sono loro a venirci a cercare, per scambiare una battuta o per prendere un caffé insieme – spiegano di Bartolomeo e Gaeta -. I rapporti ovviamente sono facilitati dal fatto che noi non lavoriamo nel loro stesso carcere, oltre che dal contesto più informale come quello del Meeting». Come rivelano le guardie carcerarie, «all’interno della prigione ci è proibito entrare in confidenza con i detenuti, anche se è doveroso il rispetto nei loro confronti e soprattutto dei loro parenti quando vengono a trovarli. Ma questo non significa dover nascondere completamente le nostre emozioni di fronte a loro o evitare, per esempio, di chiedere per quale squadra tifano. Sono piccoli particolari, ma che rendono più disteso un rapporto complesso come quello tra il carcerato e la guardia. Non dobbiamo mai dimenticarci di essere innanzitutto degli educatori».
Una parola impegnativa, soprattutto in un contesto come quello del carcere, dove talora sembra invece prevalere l’aspetto della punizione. «Sono tanti i modi con cui possiamo svolgere il nostro ruolo educativo – osservano di Bartolomeo e Gaeta -, anche se quella che conta di più è la pedagogia del gesto. Per esempio se dobbiamo aprire la porta della cella alle 9, è importante farlo in orario, o se succede un imprevisto spiegare perché: “Ho tardato perché la chiave non funzionava”. Le regole vanno osservate innanzitutto da parte delle guardie carcerarie. Rispettandole, il detenuto impara a fare altrettanto».
(Pietro Vernizzi)