DA NEW YORK – Sono appena arrivata in ospedale alle 8 di mattina e mi chiamano subito in urgenza in sala parto. Sta per nascere un bimbo che ha solo un polmone funzionante e potrebbe non farcela. Col mio team di medici ed infermiere siamo pronti a intervenire.

È una bimba! Non è prematura ma non riesce a piangere, purtroppo l’unico polmone che ha non funziona bene. La aiutiamo dandole respirazione artificiale e ossigeno attraverso un tubicino che scende attraverso la trachea nei polmoni. Dopo qualche minuto piano piano comincia a cambiare colore, diventa più rosea, si muove, apre gli occhi, mi guarda, sembra dirmi “grazie!”.



Evviva, che gioia! Anche dopo 40 anni di laurea e 35 anni di pratica come neonatologa, un momento così ha un valore inestimabile: vedere la vita “ritornare” è un’esperienza unica, un’esperienza mozzafiato. E mi chiedo, ma perché a volte riesco ad aiutare questi piccoli e a volte no? Che mistero… ancora una volta mi rendo conto che la questione non è assolutamente nelle mie mani.

Passano i minuti e dopo un altra mezz’ora, anche con l’aiuto di un respiratore portato al massimo, non riusciamo più ad ossigenarla. Oh no… Proviamo con un respiratore più potente, ma niente, non funziona. Nel giro di qualche minuto chiamiamo i chirurghi e si decide per la circolazione extracorporea. Questa è una macchina salva-vita che permette di ossigenare il sangue del paziente anche quando i polmoni non funzionano. Però questo procedimento è molto rischioso. Il sangue del paziente viene scoagulato perché deve scorrere attraverso i tubi di un circuito dove riceve l’ossigeno e poi ritornare nella circolazione e ossigenare gli organi. Discuto con la mamma la gravità della situazione. Le probabilità sono minime, ma siamo tutti d’accordo che dobbiamo provare. La mamma ci vede correre, preparare in emergenza la macchina salva-vita e improvvisamente mi chiede: “ma io cosa posso fare per la mia bimba?”.

La guardo non sapendo bene cosa rispondere, ma vedo che ha una crocetta al collo. E di istinto le chiedo “Credi in Dio?”. Lei fa segno di sì con la testa e le rispondo: “Allora prega per lei e anche per noi che possiamo aiutarla”. Poi aggiungo: “vuoi battezzarla? È certamente un aiuto in più”. A questo punto la mamma si rasserena per un attimo e dice “volevo chiederlo, ma non sapevo se era possibile”. “Ma certo che è possibile!” dico io, “questa è una priorità”. Ovviamente non c’è tempo di chiamare il cappellano e di fare una cerimonia ufficiale, basta prendere dell’acqua che aspiro in una piccola siringa direttamente dal rubinetto.

Poi ritorno alla sua culla. È circondata da infermiere che la stanno preparando, stanno posizionando dei monitor speciali, mentre il team dei chirurghi ha già iniziato a spennellarla col betadine e dico con voce autorevole: “Fermi tutti per tre secondi”. C’è un attimo di silenzio, tutti si girano e mi guardano e io dico “il Battesimo”. Sguardi interrogativi, “Ma come? Ma cosa fai? siamo in emergenza!”. Mi faccio strada tra i colleghi e le infermiere, vedo la mamma che mi sorride e le chiedo che nome vuole per la sua bimba. Verso l’acqua sulla sua fronte: “ti battezzo Adelina nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen. Alleluja!”. Ora Adelina appartiene al grande popolo di Dio, e alla Comunione dei Santi. Chissà quanti stanno già pregando per lei.

Nel frattempo i colleghi chirurghi e le infermiere cominciano il posizionamento della macchina salva-vita e noi tutti seguiamo Adelina nell’avventura del suo destino, preparato dall’eternità e per l’eternità e siamo certi che la sua vita non finisce più.

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