Nel dicembre 1942, mentre la 6a e la 4a armata tedesche si dissanguavano a Stalingrado, ai fianchi della città, su un fronte di centinaia di chilometri, era scesa una calma innaturale. Divisioni ungheresi, romene e italiane presidiavano la linea del Don con armamento e organici insufficienti. Si prenda ad esempio la sistemazione dell’11esima compagnia del 37° reggimento, divisione “Ravenna”, posto a difesa di quota 220, un punto chiave della linea di fronte all’ansa di Werch Mamon: ebbene, la compagnia doveva difendere un fronte di quasi 2 chilometri quando la dottrina tattica in vigore prevedeva di affidare la difesa di un solo chilometro a un intero battaglione!



Più volte i comandanti italiani fecero presente ai tedeschi la debolezza di questo dispositivo, con 150mila uomini schierati su un fronte di 270 chilometri, senza riserve e senza artiglieria anticarro ma, a detta dei tedeschi, l’Armata Rossa era ormai sull’orlo del crollo. E qui si rivelò la debolezza dei comandi italiani, subordinati in tutto ai tedeschi mentre pochi ufficiali, come il colonnello Gay dell’artiglieria alpina, protestavano formalmente per essere destituiti e rimpatriati. Quanto al generale Italo Gariboldi, posto a capo dell’8a armata, vale il giudizio espresso dallo storico Giorgio Rochat: “il suo pletorico comando di centinaia di ufficiali si limitò a trasmettere gli ordini tedeschi senza alcuna iniziativa a difesa delle truppe”.



Il punto è proprio questo: la difesa delle truppe, la responsabilità che lega il superiore al subordinato, il dovere di provvedere al benessere e all’efficienza dei propri uomini, affinché non fosse sempre e solo l’eroismo di soldati e ufficiali a sopperire alle manchevolezze di materiale. Il rancio era insufficiente e freddo, i materiali di conforto come cognac e cioccolato vennero accumulati nei magazzini senza essere consegnati agli uomini in linea e non vennero neppure distribuiti cappotti caldi e calzature invernali, e questo anche quando la ritirata appariva imminente. Tutto questo materiale venne dato alle fiamme nei giorni del disastro mentre i soldati, impotenti e congelati, guardavano andare in fumo ciò che avrebbe potuto salvarli.



Una prima offensiva russa spazzò via due armate romene il 19 novembre e già da allora Stalingrado era accerchiata. All’inizio di dicembre lo schieramento dell’8a armata era il seguente: avendo a sinistra la 2a armata ungherese erano piazzate lungo il Don le divisioni alpine “Tridentina”, “Julia” e “Cuneense”. In riserva la divisione “Vicenza”, composta da richiamati o troppo anziani o troppo giovani, priva persino di un gruppo di artiglieria. A destra della “Cuneense” vi era l’ansa formata dal congiungimento fra Don e Kalitva e qui cominciava il settore del 2° corpo d’armata, composto dalle divisioni di fanteria da montagna “Cosseria” e “Ravenna”. Continuando verso sud est vi era il 35° corpo d’armata, composto dalla 298a divisione tedesca, molto provata e ad effettivi ridotti, e dalla Pasubio. Ancora più a destra la “Torino”, la “Celere” e la “Sforzesca”, che componevano il 29° corpo d’armata, confinante con il settore presidiato da ciò che restava della 3a armata romena, già semidistrutta dall’offensiva del 19 novembre.

Per dare un’idea della tempesta che stava per scatenarsi basteranno alcune cifre riportate dal Rochat. Poiché il corpo d’armata alpino non venne coinvolto nelle prime fasi della battaglia, 100mila italiani e 60mila fra tedeschi e romeni dovettero affrontare l’attacco di 370mila russi, i quali erano supportati da una schiacciante superiorità in artiglieria, carri e aviazione. Ma questa superiorità era ancor più devastante laddove avvenne l’attacco principale e cioè nel settore del 2° corpo d’armata: contro la “Cosseria” (11mila uomini circa) stavano 5 divisioni di fanteria per un totale di 60mila uomini, 250 carri e quasi mille cannoni; contro la “Ravenna” invece, si sarebbe mossa la I armata guardie con sette divisioni di fanteria e cinque corpi corazzati per un totale di 110mila uomini, 234 carri e 1500 pezzi d’artiglieria.

I primi attacchi di assaggio iniziarono alle 5 del mattino dell’11 dicembre con un breve ma violentissimo tiro di sbarramento di mortai e artiglieria nel settore del 2° corpo d’armata. Le fanterie russe andarono all’assalto passando il Don gelato ma gli italiani li accolsero con un fuoco micidiale che provocò pesantissime perdite. Incuranti di tutto ciò i russi continuarono a premere, infiltrandosi fra i radi capisaldi e mettendoli sotto assedio mentre i comandi di “Cosseria” e “Ravenna”, al tramonto dell’11, avevano già speso tutte le riserve disponibili. I combattimenti si svolsero a una temperatura che andava dai -25° gradi di giorno ai -40° di notte e la nostra fanteria soffrì duramente la mancanza di indumenti e calzature adeguate. La battaglia continuò incessante di giorno e di notte per tutto il 12 e poi nei giorni successivi, ma ancora i russi non riuscivano ad aver ragione della resistenza degli italiani, abbarbicati alle proprie posizioni, ben consci che non c’era alcuna salvezza nella fuga.

Il 15 dicembre le difese delle due divisioni italiane stavano per cedere in assenza di rincalzi che, del resto, sarebbero serviti a poco data la sproporzione di forze. Sulle divisioni “Cosseria” e “Ravenna” si abbatté il fuoco della vera, grande offensiva “Piccolo Saturno” con 2mila bocche da fuoco e 500 carri armati che schiacciarono ogni resistenza. I resti delle due divisioni fuggirono nella steppa gelata e pochissimi di loro avrebbero rivisto l’Italia.

L’offensiva, intanto si era estesa anche alla “Pasubio”, supportata dal gruppo Camicie Nere “Montebello”. La divisione venne maciullata fra il 15 e il 16 da una tempesta di piombo e di acciaio. L’offensiva russa si estese in modo graduale e, come un maremoto di uomini e mezzi, si abbatté anche sul 29° corpo. La linea del Don era ormai intenibile e il 19 dicembre tutti i corpi d’armata, eccetto quello alpino, ricevettero l’ordine di ritirarsi verso Kantemirovka. A causa dell’assenza di carburante, gran parte degli autocarri e dei pezzi d’artiglieria dovettero essere abbandonati, privando così le divisioni italiane di gran parte della loro potenza di fuoco. Già nel primo giorno di ritirata quasi tutti i reparti italiani si sfaldarono e l’indisciplina crebbe man mano che aumentava la consapevolezza di essere isolati, ben lontani dalle linee amiche. A Meskov il 3° reggimento bersaglieri rimase isolato insieme alla Legione croata e combatté fino all’ultimo uomo, rimanendo completamente distrutto in un’eroica azione di retroguardia.

Eguale azione di contenimento venne effettuata dal battaglione “L’Aquila” della divisione “Julia” insieme a due batterie alpine a Novo Kalitva e a Ivanovka, al quadrivio di Selenj Yar per coinvolgere tutta la divisione. A partire dal 20 dicembre, gli alpini scavarono le proprie buche nel ghiaccio e dormirono, mangiarono, e combatterono lì dove si trovano a 35 gradi sotto zero. “L’Aquila” difendeva Ivanovka, i battaglioni “Val Cismon” e “Vicenza” erano a Seleny Jar e da subito la lotta si fece pesantissima a corpo a corpo. I pezzi d’artiglieria alpina, inefficaci contro i carri ma micidiali contro la fanteria, furono il fattore decisivo della vittoriosa resistenza alpina, sia in questa battaglia che in quelle successive.

Nel frattempo la colonna composta dalle divisioni “Torino”, “Pasubio” e dalla 298a tedesca arrivava ad Arbusov, un paesino situato sul fianco nord di una vallata che aveva direzione est-ovest. Per passare, gli italiani dovevano conquistare la sommità delle creste, fortemente presidiate dai russi, dotati di una soverchiante potenza di fuoco. Per tutto il 22, in condizioni terrificanti, senza cibo e senz’acqua, a temperature che arrivavano anche a -50° italiani e tedeschi cercarono di aprirsi una strada. I reparti avevano perso ogni coesione e si combatteva con la pura forza di volontà. Ma toccò a un semplice soldato abruzzese, Mario Iacovitti, addetto ai lanciafiamme, riscattare la dignità di tutti. Per quanto stremato e con gli arti inferiori menomati da un principio di congelamento, riusciva a montare su un cavallo e a sventolare una bandiera tricolore. Un carabiniere, Giuseppe Plado Mosca, lo seguì da solo e tutta la colonna andò loro dietro. Per migliaia di uomini, cresciuti ed educati ai miti risorgimentali, fu una sferzata di orgoglio e di tragica bellezza e tutta la massa dei combattenti si avventò alla carica contro i russi. Un primo assalto fallì e ne seguì un secondo, poi un terzo e un quarto, sempre con Iacovitti a cavallo, mentre Plado Mosca veniva fulminato da una raffica di mitragliatrice. Alla fine, al quinto assalto, il cavallo veniva abbattuto ma Iacovitti si trascinava carponi verso una postazione di arma automatica e la eliminava a colpi di bombe a mano. Nel prosieguo della lotta Iacovitti veniva catturato ma riuscì a sopravvivere alla prigionia.

La ritirata della “Torino” si concluse, almeno per il momento, a Tcerkovo, ancora in mano tedesca, e i superstiti poterono almeno mangiare e riposarsi ma le sofferenze non erano ancora finite. Gli scampati di diverse divisioni (appena trecento della “Ravenna”, poco più di 8mila complessivamente) furono riorganizzati in centurie e posti a difendere quel vitale centro logistico: in tutto, secondo quanto narra Eugenio Corti in I più non ritornano, tra i 500 e i 700  uomini, mentre i tedeschi, come sempre combattivi e ben inquadrati, erano in 4mila. Tcertkovo resistette dal 26 dicembre al 9 gennaio, respingendo ben sette attacchi. Due interi corpi d’armata erano stati spazzati via. Ora toccava agli alpini, rimasti isolati a difendere un fronte indifendibile.

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