Con il virtuale annientamento dell’armata italo-tedesca a El Alamein e lo sbarco degli Alleati in Marocco e in Algeria l’8 novembre 1942 le prospettive di lotta nel Mediterraneo erano completamente mutate. Le forze francesi presenti si erano arrese dopo breve resistenza ed erano tornate a essere alleate degli inglesi. Nel corso del mese di novembre gli Alleati cercarono di vincere la “corsa per Tunisi”, ma furono battuti sul tempo dai tedeschi, che inviarono forze consistenti con ogni mezzo e stroncarono l’avanzata angloamericana.
Per rallentare l’avanzata alleata verso Tunisi era essenziale colpire il traffico dei rifornimenti nei porti algerini. Il maggiore Carlo Emanuele Buscaglia, già citato in queste pagine, tenne a rapporto i suoi uomini del 132° gruppo aerosiluranti la mattina dell’8 novembre. “Questi avvenimenti non ci devono impressionare oltre un certo limite – commentò dopo aver relazionato sugli sbarchi angloamericani –. Per noi non è cambiato nulla: siamo soldati e finché c’è guerra dobbiamo combattere: cercherò di evitare rischi e sacrifici inutili, ma è bene che tutti sappiano che è arrivata la fase più dura della lotta. A noi ufficiali spetta la responsabilità, il dovere, di tenere alto il morale della truppa. Credo di trovarvi tutti d’accordo”. L’obiettivo della missione era il porto di Algeri per silurare le navi da carico. La zona era protetta da una forza di caccia basata su cinque o sei portaerei e, data la distanza, i siluranti non avrebbero avuto alcuna scorta. Per questo motivo era necessario giungere sull’obiettivo poco prima del tramonto e rientrare di notte. I tempi dovevano essere calcolati alla perfezione, dato che la missione avveniva ai limiti dell’autonomia consentita.
Dopo una prima missione, abortita per condizioni meteorologiche sfavorevoli, gli equipaggi attesero per tre giorni una nuova occasione, pur sapendo che un nuovo attacco sarebbe equivalso quasi a un suicidio. Gli uomini, o meglio, i ragazzi, tutti giovanissimi, erano sereni e il tenente Angelucci cantava di continuo “Mamma, solo per te la mia canzone vola”, pur sapendo che quasi certamente non avrebbe più rivisto i propri familiari.
L’11 novembre Buscaglia illustrò un nuovo piano d’attacco. Obiettivo, questa volta, era la baia di Bougie, che pullulava di navi da carico. Sarebbero partiti gli aerei di Buscaglia, Graziani, Faggioni e Angelucci. Quel mercoledì pomeriggio i cinque aerei tagliarono direttamente verso la Tunisia, addentrandosi nel Nord Africa, sfiorarono le montagne della Piccola Cabilia e puntarono su Bougie da sud. I caccia inglesi, però, li attendevano e iniziò il combattimento. Francesco Maiore, il fotografo dell’aereo di Buscaglia, fu ferito a un braccio, ma i Savoia Marchetti riuscirono a raggiungere la baia, dove vennero accolti dalla contraerea. Buscaglia si buttò a cinquanta metri di quota, seguito dagli altri, puntando da est a ovest. L’aereo di Angelucci esplose in pezzi: nessuno sopravvisse. I quattro aerei superstiti sganciarono il siluro in una tempesta di piombo poi sfuggirono verso la Sicilia, inseguiti dagli Spitfire ma, grazie al fuoco delle mitragliere di bordo, non vi furono altre perdite. Era stata una missione disperata e Faggioni polemizzò duramente con Buscaglia per i rischi corsi.
Quella notte Buscaglia non dormì, preparò un altro attacco e, all’alba, andò in infermeria a visitare Maiore, che insistette per prendere parte all’azione. Poi incontrò Graziani e discussero nuovamente sull’insensatezza di simili attacchi. Anche Graziani, come Faggioni, reputava che fosse uno spreco di equipaggi addestrati, ma Buscaglia rispose da par suo. “Sì – disse il comandante che, va ricordato, aveva appena 26 anni – la guerra l’abbiamo perduta, ormai, lo sai, ma questo è il momento cruciale, non ci possiamo tirare indietro. Caro mio, qui c’è poco da illudersi, dobbiamo morire tutti! A Natale, sarà rimasto vivo, sì e no, uno solo di noi. Ma intanto la guerra la dobbiamo fare”.
La mattina del 12 novembre partirono gli equipaggi di Buscaglia, Bargagna, Marini, Aichner, Pfister e Croci. Il profilo della missione era quello del giorno prima: passare dalla Tunisia per attaccare Bougie, celandosi ai radar, volando in fila a bassa quota nelle vallate algerine. Giunti in prossimità di Bougie, i piloti diedero tutto gas, scavalcando la cima di un monte e affacciandosi sul mare pieno di navi. Per sfortuna sette Spitfire provenienti da Algeri si misero in caccia degli aerei italiani, mitragliando l’aereo di Buscaglia che prese fuoco. Il maggiore continuò ugualmente l’attacco, sganciò il siluro che colpì la nave trasporto e poi tentò un ammaraggio disperato, ma quando toccò l’acqua l’aereo esplose. Gli altri Savoia Marchetti riuscirono a rientrare, disperati per la perdita del proprio capo.
La Movm fu concessa, alla memoria, sia a Buscaglia che all’aviere Maiore. Nessuno poteva sapere che Buscaglia, autore di affondamenti per più di 100mila tonnellate e uno dei più grandi eroi del conflitto, era sopravvissuto all’incendio, pur restando gravemente ustionato. Fatto prigioniero, venne ricoverato negli Stati Uniti. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, Buscaglia scelse di combattere ancora con gli Alleati, proprio mentre molti dei suoi camerati rimasti a combattere con la Repubblica sociale italiana costituivano un gruppo di siluranti con il suo nome, avendolo creduto morto. La fine era comunque vicina. Rientrato in servizio dopo le gravissime ferite subìte, Buscaglia volle provare a decollare con un Douglas Baltimore e si schiantò alla fine della pista di Campo Vesuvio, il 23 agosto 1944. Anche questa volta Buscaglia si tirò fuori dal rogo ma, il giorno dopo, spirò per le gravissime ustioni riportate.
Anche la X flottiglia Mas continuava la propria guerra contro le navi britanniche in condizioni sempre più disperanti, ma escogitando sempre nuove soluzioni.
Davanti a Gibilterra si trova la baia di Algesiras, in territorio spagnolo. Qui una nave mercantile italiana, la Olterra, sorpresa dallo scoppio del conflitto, si era autoaffondata su un basso fondale per evitare di essere catturata. Il tenente di vascello Licio Visintini e l’ingegner Giulio Pistono, dei servizi segreti, verificarono la possibilità di far riemergere il cargo e trasformarlo in una base per gli incursori. Venne trovato anche un posto di osservazione della base di Gibilterra nella casa di Antonio Ramognino, residente in Spagna e che aveva acquistato una villa proprio davanti alla rada. Era una casa splendida e faceva sfoggio di una grande gabbia per pappagalli, posta proprio davanti a un finestrino che faceva da osservatorio.
Alla fine di giugno 1942 giungeva ad Algesiras una squadra di 12 nuotatori, capitanati da Antonio Straulino: un grande uomo di mare che, nel dopoguerra, divenne campione olimpionico di vela. Gli incursori giunsero all’Olterra alla spicciolata, travestiti da marinai che dovevano dare il cambio all’equipaggio internato. Indolenti, ubriaconi, litigiosi e volgari, i “marinai” dell’Olterra, una volta rientrati dalla libera uscita, scendevano sotto coperta e cominciavano a lavorare con calma e rapidità all’interno della stiva per montare i mezzi d’assalto e fabbricare un’apertura sul fondo della nave. Sul fianco dell’Olterra, infatti, era stata ricavata una paratia stagna che permetteva l’uscita di mezzi e personale per andare all’assalto di una delle basi navali più munite e sorvegliate del mondo.
Nel porto di Gibilterra i riflettori erano sempre accesi e la zona era pattugliata da motoscafi e vedette. Bombe di profondità venivano lanciate a intervalli regolari e frequenti, così che l’attacco apparve, da subito, estremamente rischioso, quasi suicida. Ebbene, in due azioni compiute in luglio, gli incursori di Visintini colarono a picco quattro navi e ne danneggiarono altre cinque senza che gli inglesi capissero da dove fosse partito l’attacco.
Il 6 dicembre vennero avvistate le corazzate Renown e Rodney, oltre alle portaerei Furious e Illustrious. La squadriglia dell’Orsa Maggiore, come si era denominata dal gagliardetto donato dalla madre di uno dei sommozzatori, entrò in azione la sera del 7. Per Visintini e Magro era la prova suprema. L’urto delle bombe di profondità veniva avvertito dagli incursori già appena usciti dal ventre dell’Olterra, ma Visintin e Magro andarono avanti. Più si avvicinavano alla base più l’urto delle bombe si faceva doloroso, tanto che cominciarono a perdere sangue dal naso e dalle orecchie. Sempre determinati, Visintin e Magro arrivarono alla rete di sbarramento e cercarono di aprirsi un varco ma, mentre stavano compiendo quel lavoro, furono uccisi dalle bombe di profondità.
Altri due equipaggi avevano compiuto lo stesso tentativo, ma il risultato fu tragico: Manisco svenne e Varini, stremato, fu ricuperato dai marinai inglesi. L’altro equipaggio venne individuato dalle motovedette e mitragliato: Leone rimase ucciso e Cella, unico scampato, riuscì a dileguarsi e a tornare all’Olterra. Quando le salme di Visintini e Magro riemersero, gli inglesi le recuperarono, provvedendo ai funerali con gli onori militari.
La notte dell’8 dicembre, però, altri incursori, uomini-rana del Gruppo Gamma, venivano trasportati nei pressi del porto di Algeri dal sommergibile Ambra, comandato dal tenente di vascello Mario Arillo. Ben dieci uomini Gamma, comandati dal sottotenente Agostino Morello, uscirono dal battello, seguiti da tre “maiali”. Dopo aver minato le navi da carico gli incursori cercarono di fare ritorno al battello che li aveva attesi nonostante si trovasse in bassi fondali e in pericolo di essere scoperto da un momento all’altro. Tutti furono catturati dalla vigilanza britannica ma, all’alba, ben cinque navi da carico saltarono in aria.
Oggi, la poppa dell’Olterra è conservata al museo navale di La Spezia, testimone di un coraggio, di uno spirito d’iniziativa, di una volontà ineguagliati. Ed è di queste qualità che gli italiani devono essere consapevoli, senza attardarsi su polemiche, magliette, comici invecchiati, nani e ballerine. Noi italiani ci meritiamo molto di più di questa deprimente e ignobile guittaggine.
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