Nella storia dell’Occidente cristiano, fin dagli inizi dell’età medievale si è imposta una simbiosi tra il bisogno di riunirsi in corpi religiosi e il rapporto con il mondo del sacro. È partendo da qui che ha preso forma la tradizione associativa delle confraternite, di cui in passato è stata molto sottolineata la dimensione “assicurativa”, vista prevalentemente in funzione dell’addomesticamento della morte. I corpi confraternali sono stati letti come istituzioni “funerarie”, fondate su un intreccio di garanzie per l’accesso agevolato a una salvezza che si proiettava oltre la fine dell’esistenza individuale. Lo sviluppo di una teologia del merito e il sistema delle indulgenze hanno contribuito potentemente, fino alla frattura della Riforma protestante, a consolidare questa spinta originaria, che andava nel senso di amplificare il primato della misericordia divina rispetto al rigore della giustizia che retribuisce e non può tralasciare anche di punire.



Ma già il fatto che le facilitazioni per la conquista del premio eterno si basassero sulla fruizione di un tesoro di grazie condivise lascia intravedere che il legame con l’evento della morte non era un fatto da vivere in regime di solitudine. Il suo riscatto in chiave cristiana si inseriva in una circolazione di scambi reciproci nutrita da un assetto comunitario, che creava un mantello di protezione estensibile anche al di qua della barriera fisica della morte: esattamente in direzione della vita nel “secolo”, lungo il cammino di una esperienza umana abbracciata nella sua globalità, non solo a partire dal suo culmine finale.



Si può dire che la cornice che faceva da sostegno alla ricerca dell’autotutela non poteva che essere l’implicazione tra gli individui, cioè l’innesto in una trama di mutualità coltivata in una cerchia delimitata di persone, che si legavano a vicenda attraverso i vincoli di una sorta di parentela “artificiale”, più eterogenea e inclusiva di quelle fondate sul sangue. Ed è quanto mai significativo che queste forme di familiarità allargata abbiano definito i loro modelli di organizzazione, nelle varie lingue europee, adottando le etichette identificative dell’ideale della “fraternità”: una fraternità capace di far convergere i “diversi”, i “molti” di origine e condizioni di vita anche eterogenee intorno a un centro di riferimento comune, dando vita a organismi aggregativi che si inscrivevano nelle griglie giuridico-istituzionali dell’universitas (molte “membra”, un unico “corpo”, tendenzialmente autosussistente e governato in proprio).



La sorgente primaria di questa forza attrattiva della “con-fraternità” è da vedere strettamente connessa con le dimensioni costitutive dell’esperienza cristiana. Entrava qui direttamente in gioco la natura del cristianesimo come re-ligio, come alimentazione del circuito della carità e fattore di coesione tra gli individui, quindi come strada maestra per diventare “corpo”, per calarsi nelle prospettive della tensione a compaginare la dispersività del vivere in società, inevitabilmente plurale, frammentato, in larga parte anche conflittuale, secondo il paradigma supremo del concepirsi come parti di una “cosa sola”.

Al di là del grado, sempre imperfetto, con cui questa aspirazione all’unità poteva realizzarsi nei fatti, qui preme sottolineare che, parlando di sfondo comunitario, non dobbiamo pensare di trovarci davanti alla nobile retorica di un travestimento ideologico della realtà concreta del mondo, attraversato dal bisogno di camuffare e nascondere le pressioni contraddittorie delle relazioni umane in un medesimo contesto di vita collettiva, relazioni che restavano largamente antagoniste, spesso dominate dal contrasto degli egoismi contrapposti. Le pulsioni alternative al precetto della condivisione fraterna certamente esistevano, e per forza di cose facevano sentire il loro condizionamento. Ma l’appello al superamento dell’egoismo autocentrato scaturiva dalla sostanza irrinunciabile di uno stile etico proposto come l’orizzonte in cui doveva naturalmente riflettersi l’impatto della coscienza religiosa sul fluire del vivere. L’architrave della visione del fenomeno cristiano come esperienza da condurre nella densità di una rete di rapporti paragonabili all’unità organica di un corpo era stata chiaramente delineata nello stesso nucleo essenziale dei testi fondativi del nuovo patto di alleanza tra il divino e l’umano, in particolare attraverso le lettere di san Paolo e con gli sviluppi originali introdotti dal lavoro di commento dei Padri. La disseminazione ancora in età moderna delle confraternite aperte alla massa dei comuni fedeli laici ha prolungato nel tempo e dilatato nello spazio la possibilità di accedere a questa cruciale proiezione intersoggettiva, si potrebbe anche dire “comunionale”, del fatto cristiano, consentendo di sperimentarla in prima persona, almeno in forme maldestramente approssimative e tutt’altro che sempre lucidamente consapevoli, in ogni ambito dell’universo sociale, non solo tra le file ristrette di una élite dotata di risorse privilegiate anche soltanto sul piano culturale.

Il punto di forza del modo in cui l’aggregazione ai corpi confraternali introduceva alla riunificazione in senso organicista e caritatevole era il rifiuto dell’universalismo astratto, aperto indistintamente alla totalità. Al contrario, la coesione dell’essere “una cosa sola” legandosi come fratelli in un sodalizio di impianto corporativo istituiva un vincolo socialmente definito, con un suo marcato spessore di visibilità: annodava i fili di una relazione di affinità, di vicinanza o parentela rituale, nello stesso momento in cui fissava una linea evidente di demarcazione rispetto agli estranei, isolando una frazione della totalità dal resto del mondo umano che la circondava da ogni lato. L’implicazione corporativa era per forza di cose settoriale. Frammentava l’universalità e si coniugava con la logica della preferenza. Portava a privilegiare il prossimo più vicino, identico a sé, inserito nella medesima “famiglia artificiale”, e solo di conseguenza generava legami di condivisione con ciò che restava al di fuori della propria cerchia di dominio esclusivo.

Al di là dei limiti oggettivi secondo cui questo modello poteva essere assecondato nei comportamenti abituali, resta il fatto che un modello da proporre esisteva, e la sua tenuta sotterranea rappresenta un elemento di impressionante continuità sul filo della lunga durata. La sua sopravvivenza si è dimostrata capace di incunearsi fin negli sviluppi della modernità più avanzata, in controtendenza rispetto alle spinte nel senso dell’individualismo religioso che hanno caratterizzato le metamorfosi più recenti della storia cristiana.

Si ripropongono alcuni dei temi al centro del saggio “Un solo corpo”. La dimensione comunitaria del modello educativo confraternale, pubblicato nel secondo volume dell’Annuario di storia religiosa della Svizzera italiana (2023, pp. 185-205), che raccoglie gli atti del convegno su Confraternite: tra sfide e opportunità, promosso dalla Facoltà Teologica di Lugano e svoltosi nei giorni 21-23 settembre 2023.

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