Una straziante vicenda di maternità negata è al centro di un film che ha riscosso lusinghieri favori della critica, pur senza conquistare il consenso del vasto pubblico. Si tratta di Piccolo corpo, opera prima di Laura Samani, apparsa nel 2021. Ne è protagonista Agata, umile contadina friulana di inizio Novecento, che vive in una povera comunità di pescatori della laguna adriatica, nella cornice tipica del mondo che il cinema d’autore ha cercato di ricreare attraverso invenzioni come quelle del suggestivo Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi.
Rimasta incinta, Agata si trova alle prese con una gravidanza difficile, fronteggiata con il ricorso ad antichi rituali di protezione costruiti intorno al mistero della fecondità che si perpetua attraverso il corpo e il sangue della donna. Anche il parto si rivela più traumatico del solito. E la figlia che viene dolorosamente messa alla luce nasce in realtà già morta. Priva del soffio del respiro, la bambina non può essere battezzata: il sacerdote del luogo è inflessibile nell’applicare la legge della consuetudine, che la condannava a non poter essere mondata dalla macchia del peccato originale. Alla piccola creatura è negata l’assegnazione di un nome, così come la sepoltura in terra consacrata. Il suo destino, magari dopo aver anche a lungo vagato insoddisfatta intorno ai luoghi da cui era stata prematuramente respinta, era lo scivolamento nelle ombre del Limbo: il luogo del soggiorno delle anime dei non battezzati, che riservava ai bambini morti senza colpe individuali l’esenzione dai castighi infernali, ma li privava per sempre, d’altra parte, della visione beatifica di Dio. Così insegnava una dottrina teologica diventata di dominio comune nel Medioevo, in parallelo con la definizione resa via via più accurata e meticolosa della struttura tripartita dell’aldilà cristiano.
Per Agata tutto sembra sul punto di sprofondare in una tragedia senza sbocco. Senonché la perpetua del posto le rivela che una via di uscita in realtà non restava preclusa: nelle più remote vallate montuose, esisteva un santuario dove si credeva potessero sprigionarsi i miracoli di far ritornare almeno per qualche attimo alla vita i bambini nati morti, che così potevano essere immediatamente battezzati e messi nella condizione di finire sepolti insieme agli altri comuni defunti. Agli occhi di Agata la proposta non aveva nulla di assurdamente inconcepibile. Si fida, e decide subito di partire: da sola, senza il sostegno di nessuno, con un vero eroismo declinato al femminile, intriso di tenera dolcezza per la figlia morta e pieno, allo stesso tempo, di un battagliero piglio vigoroso. Rinchiude il corpicino della sua bimba in una scatola di legno, e si lancia in un viaggio carico di insidie imprevedibili, che si rivela un vero e proprio pellegrinaggio di sofferta purificazione, spinto fino al costo di mettere a repentaglio la propria esistenza. Al culmine della prova, solo con l’aiuto di uno strano compagno di avventura incrociato lungo il cammino potrà compiersi il tentativo di deporre il corpo da far risorgere sull’altare ritenuto in grado di elargire, a chi veramente ci credeva, il prodigio di una momentanea inversione del corso della natura.
L’intreccio che si dispiega ha per noi, oggi, il sapore della paradossalità estrema. Può apparire ridotto alla bizzarra invenzione di uno spirito popolare arcaico, intriso di magia e di folklore. Ma gli esperti di storia del sentimento religioso e di antropologia dell’Europa medievale e moderna hanno da tempo documentato che la credenza nella possibilità del richiamo alla vita per i bambini nati morti, o comunque defunti prima di essere accostati al fonte battesimale, era universalmente diffusa nella cristianità dell’Occidente. Almeno dalla fine del XII secolo è attestata l’esistenza di luoghi sacri e immagini taumaturgiche a cui ci si rivolgeva per supplicare il dono dell’altrimenti interdetto senza nessun tipo di rimedio: l’alito della vita che ritornava a soffiare nel fragile corpicino travolto dalla morte e magari dissepolto anche da molti giorni, la carnagione esanime che riprendeva il suo roseo colore, lo sgorgare di una lacrima, l’accenno di ripresa delle normali funzioni fisiologiche dei neonati. Bastava un minimo filo di tregua, anche di un solo istante, e in teoria chiunque, non solo i sacerdoti, potevano essere autorizzati a imprimere il sigillo del sacramento che rendeva legittimo sperare in un accesso al regno della beatitudine eterna per tutti i poveri bambini innocenti.
Una corona di santuari specializzati si ramificò in ogni angolo del mondo cristiano, a quanto pare avendo come focolaio iniziale di alimentazione il territorio franco-germanico. Con l’andare del tempo, la rete si infiltrò attraverso l’intero l’arco alpino, dall’occidente savoiardo fino alle ultime propaggini orientali sotto l’egemonia asburgica, in ambito carnico e sloveno, lungo le vie di transito che facevano da cerniera tra il nord e il sud del continente. Numerose furono le proiezioni che consentirono alle pratiche religiose finalizzate a ottenere il ritorno alla vita e la “doppia morte” dei bambini non battezzati di espandersi anche nelle più popolose aree di pianura dei diversi contesti nazionali, con innesti capaci di includere non solo appartate località di periferia, dove si riusciva ad agire lontani dai poteri di controllo delle autorità ecclesiastiche e civili, ma anche centri urbani di rilievo, come Ginevra, Losanna, Torino.
La durata del sistema di protezione contro il trauma della morte prematura fu sorprendentemente lunga. Le sue robuste trame resistettero all’ondata polemica del rigorismo protestante e proprio tra Cinque e Seicento, nel cuore del rinnovamento cattolico della prima età moderna, il sistema raggiunse il suo apice. Nuove critiche severe arrivarono dai fautori della purificazione in senso “illuminista” del culto cristiano e dagli stessi vertici della Chiesa di Roma nel Settecento. Ma ancora nel secolo successivo risultavano tutt’altro che completamente smantellati gli strascichi di una tradizione che era il riflesso esplicito della materializzazione del bisogno di misericordia, dilatato fino ad avvolgere ogni dramma dell’esistenza umana, tesa tra lo stupore luminoso della vita che fiorisce e l’inclinazione inesorabile alla finitudine di ogni essere.
Se il vertice del divino è l’amore gratuito che si dona senza risparmio per il bene di ogni uomo, bisognava rendersi disponibili a scalare le vette dell’impossibile per rivendicare il desiderio che nessuno ne rimanesse escluso: a cominciare dai “più piccoli”, morti senza lo scudo di qualsiasi difesa, visti (Matteo 25) come l’incarnazione emotivamente più impressionante, fisico prolungamento diretto delle sofferenze patite, lui per primo, dal Figlio di Dio fatto uomo e divenuto servo “fino alla morte di croce”.
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