Se quelle a cui assistiamo sono le premesse nel 79esimo anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, per il prossimo 25 aprile possiamo aspettarci l’ennesimo circo equestre di ricostruzioni storiche fantasiose, di omissioni e di reticenze. Il tutto a scapito di una memoria che non deve essere per forza condivisa ma che sia, per lo meno, il più possibile oggettiva.
Era un anniversario, questo, da cui sarebbe potuto germogliare il tentativo di migliorare noi stessi nel ricordo di quelle vittime e invece si è data la stura al solito parapiglia. “Fucilati perché italiani”, “il battaglione Bozen era composto da musicisti pensionati, non da nazisti”: definizioni per lo meno azzardate e non coerenti col reale, tali da suscitare una levata di scudi immediata a difesa non della memoria reale di quei fatti ma del mito che si è voluto coltivare in questi anni, dimenticando o tralasciando intenzionalmente gli aspetti più sgradevoli e controversi di tragedie come quella di via Rasella (23 marzo 1944) e delle Fosse Ardeatine (24 marzo 1944).
Innanzi tutto va precisato che il battaglione “Bozen” era una unità di polizia che stava completando il proprio addestramento e l’età dei suoi componenti andava dai 26 ai 40 anni circa. Era una unità combattente i cui uomini avevano avuto l’ordine di marciare per Roma cantando; questo tanto per esacerbare gli animi dei romani e per far sentire chi erano i padroni. Magari gli uomini del “Bozen” avrebbero fatto volentieri a meno di quella lugubre pagliacciata, ma non era il caso di discutere degli ordini. In ogni caso erano un obiettivo legittimo e potevano essere attaccati dai partigiani.
Cosa ben diversa, invece, e che non è stata puntualizzata da nessuno nella cagnara di questi giorni, è se fare strage di questi riservisti fosse opportuno. E non si tratta di scegliere tra l’attacco e l’attendismo, pericolo mortale, quest’ultimo, di ogni movimento partigiano, giustamente combattuto dai comunisti. La critica agli attentati dei Gap non viene da qualche pio prelato vaticano ma da un ufficiale americano dei servizi segreti, Peter Tompkins, che si era infiltrato nella Roma occupata. Nel suo Una spia a Roma (Il Saggiatore, 2002) così ricorda le sue discussioni coi comunisti, in particolare con Giorgio Amendola, sull’opportunità di condurre attacchi facili da eseguire ma con pesanti ricadute in termini di rappresaglia: “Cercai di convincere Amendola che al posto di atti terroristici indiscriminati contro i tedeschi sarebbe stata più utile la ricerca di precisi obiettivi militari, esponendo così a un minore pericolo i gappisti e offrendo al nemico meno scuse per le rappresaglie. Ma Amendola sosteneva che il terrorismo in sé fosse necessario, che la rappresaglia nazista serviva a far infuriare i cittadini e a renderli più inclini a operare per la Resistenza, a esporsi al pericolo invece di restare nascosti, inoperativi, attendendo l’arrivo degli Alleati. Capivo il suo ragionamento ma ero più convinto del mio”.
Al momento dell’attentato di via Rasella le carceri di via Tasso rigurgitavano di partigiani prigionieri che venivano torturati nei modi più efferati ed era chiaro a chiunque che un attacco come quello avrebbe causato una rappresaglia gigantesca, e le vittime designate erano i prigionieri di via Tasso. Tompkins apprezzò la professionalità dell’attacco, ma nelle sue memorie non risparmia una severa critica ai Gap comunisti che agivano in proprio senza coordinarsi con le altre forze politiche.
“La prima cosa che pensammo – commenta Tompkins, che stava progettando un attacco al carcere dove era torturato il suo più fidato collaboratore Maurizio Giglio – fu che non c’era nessuna utilità nell’uccisione di trenta poliziotti tedeschi. Perché piuttosto non avevano rischiato la pelle in un assalto a via Tasso? Perché non avevano scelto come bersaglio Kappler e la sua banda di macellai?” (Una spia a Roma, p. 237).
Circa la complicità dei funzionari italiani della Repubblica sociale va anche ricordato che, inizialmente, la rappresaglia doveva essere di 50 a 1 e che tutti erano terrorizzati all’idea di una reazione tedesca che, inizialmente, prevedeva di radere al suolo l’intero quartiere dove si era svolto l’attentato. Così furono dati letteralmente in pasto al Moloch nazista vittime sacrificali a caso, detenuti per reati comuni, civili rastrellati e una settantina di ebrei che non avevano certo scelto di trovarsi nel luogo sbagliato al momento sbagliato.
Il gruppo più numeroso di vittime fu quello della formazione trozkista “Bandiera Rossa” ma, tra i 335 (più una vittima casuale, Fedele Rasa, uccisa nei dintorni della zona dell’esecuzione per cui le tombe sono in realtà 336) vi era anche un ex fascista come Aldo Finzi, squadrista e massone che aveva partecipato alla Marcia su Roma.
E allora si può sì dire che, in fondo, tutte le vittime erano italiane, ma sarebbe bello almeno ricordare le medaglie d’oro al valor militare che sono sepolte alle Fosse Ardeatine, suddividendole per formazione di appartenenza. Visto che nessuno lo fa ci si permetta di farlo su queste pagine. Buona lettura.
Nel fronte militare della Resistenza:
Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, 43 anni, colonnello, volontario in Spagna a fianco dei franchisti, coordinatore dell’attività delle bande monarchiche, torturato per settimane;
Vito Artale, generale di artiglieria, 66 anni;
Manfredi Azzarita, capitano di cavalleria, 32 anni;
Dardano Fenulli, generale vicecomandante della divisione Ariete, 55 anni;
Filippo de Grenet, tenente, 40 anni, stretto collaboratore di Montezemolo e con lui arrestato;
Roberto Lordi, 50 anni, e Sabato Martelli Castaldi, 48 anni, generali dell’aeronautica, costituitisi ai nazisti per scagionare il proprietario del polverificio da dove rifornivano di munizioni le bande armate;
Umberto Lesena, 40 anni, ebreo, ex legionario fiumano, maggiore dei paracadutisti;
Simone Simoni, generale, 64 anni, pluridecorato al valore, padre di Gastone, caduto a El Alamein e decorato con la Movm alla memoria;
Manfredi Talamo, 49 anni, tenente colonnello dei carabinieri, esperto di controspionaggio;
Ugo De Carolis, 45 anni, maggiore dei carabinieri;
Ilario Zimbelli, 35 anni, capo segnalatore.
Nello spionaggio militare:
Maurizio Giglio, 24 anni, tenente, fonte di preziose informazioni per gli Alleati, collaboratore del capitano Peter Tompkins, crudelmente torturato senza che rivelasse nulla ai suoi aguzzini.
Nel Partito socialista:
Giuseppe Lo Presti, 25 anni, socialista.
Nel Partito comunista:
Gioacchino Gesmundo, 36 anni, professore di storia e filosofia al liceo Cavour di Roma;
Alberto Marchesi, 44 anni, commerciante.
Nel gruppo trozkista “Bandiera Rossa”:
Romualdo Chiesa, 22 anni, reso quasi cieco e con il volto trasformato in piaga sanguinante per le sevizie subite;
Alberto Cozzi, operaio, 19 anni;
Aladino Govoni, 36 anni, figlio del poeta Corrado Govoni.
Nel Partito d’azione:
Pilo Albertelli, 37 anni, che ebbe le costole fratturate e cercò di suicidarsi due volte;
Armando Bussi, impiegato, 48 anni;
Aldo Eluisi, 46 anni, ex ardito del popolo.
Nelle organizzazioni liberali:
Placido Martini, 65 anni, garibaldino nella guerra greco-turca del 1897, avvocato, ex gran Maestro della Massoneria;
Carlo Zaccagnini, 31 anni, invalido di guerra, avvocato.
Nelle bande armate del Lazio:
Gaetano Butera, carrista dell’Ariete, 20 anni, partigiano;
Manlio Gelsomini, 37 anni, capitano;
Renato Villoresi, capitano di artiglieria, 27 anni, protagonista della difesa di Roma il 9 settembre 1943.
Nella banda Caruso composta da carabinieri:
Candido Manca, 37 anni, ragioniere;
Francesco Pedicelli, 38 anni, maresciallo;
Augusto Ronzini, 46 anni;
Romeo Rodriguez Pereira, 26 anni;
Genserico Fontana, 26 anni, capitano;
Giovanni Frignani, 47 anni, tenente colonnello;
Calcedonio Giordano, 28 anni;
Raffaele Aversa, 38 anni, capitano;
Gaetano Forte, 25 anni;
Gerardo Sergi, 27 anni.
In conclusione sarebbe ora che i politici conservatori conoscessero la storia della Resistenza: si accorgerebbero di quanti partigiani abbiano avuto idee moderate o liberali, sottraendo così alla sinistra ogni argomento ideologico e mitologico. E fare, finalmente, Storia.
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