La stasi del fronte a El Alamein non significava l’assenza di pericoli. La morte era sempre in agguato per le mine e l’artiglieria.
Il 13 ottobre il generale Alessandro Predieri, comandante della divisione “Brescia”, saltava su una mina mentre si trovava in auto col generale Ferrari Orsi, comandante del X corpo d’armata, il quale rimaneva, invece illeso.
Il pomeriggio del 14 ottobre una salva d’artiglieria britannica colpiva le postazioni dell’11ª compagnia paracadutisti, comandata dal capitano Guido Visconti di Modrone, fratello di quel Luchino Visconti che, proprio in quei giorni, stava girando il suo primo film, Ossessione, il primo di tanti capolavori. Quel giorno Visconti uscì dalla sua buca per un giro di controllo “solo, elegante e immacolato”. Nei giorni precedenti aveva espresso il desiderio di “finire bene” gridando: “Viva il re!” al momento di essere colpito, come nelle stampe risorgimentali. Mille volte i suoi superiori, subalterni e amici lo avevano scongiurato di stare al riparo, ma egli rispondeva: “Un Visconti non schiva il piombo dei Windsor”. Mentre attraversava il pianoro, completamente esposto, una granata esplodeva nei suoi pressi, ma non prima che si sentisse gridare “Viva il re!”. Visconti venne ritrovato con uno scheggione conficcato nella spina dorsale e fu portato all’ospedale da campo più vicino. Parvis, il medico chirurgo cercò di confortarlo, dicendogli che la paralisi era prodotta da un ematoma che si sarebbe risolto, ma Visconti, sorridendo, diede un colpetto sulla mano di Parvis e rispose in milanese: “Va’ un po’ via dottor, non contar su balle”. Qualche ora più tardi Visconti si spegneva.
E i lutti non finivano. Il 18 ottobre un’auto dello stato maggiore saltava su una mina. Morivano i maggiori della “Folgore” Patella e Macchiato e il generale Federico Ferrari Orsi: anche lui, che Bechi di Luserna definì “un cavaliere antico, nobile e mistico come un crociato”, aveva terminato la sua dose di fortuna.
Nelle giornate del 22 e del 23, cala quasi del tutto il traffico radio britannico, indice dell’imminenza dell’attacco. Il 23 ottobre, alle 20.45, mille cannoni inglesi iniziano uno spaventoso tiro di repressione su tutta la linea del fronte con una violenza paragonabile alle grandi offensive della Grande guerra. Dopo due ore di bombardamento parte l’attacco britannico, articolato su due direttrici: una a nord, sulla litoranea e l’altra a sud, in pieno deserto.
A nord la 164ª tedesca e la “Trento” sostengono l’assalto di cinque divisioni (9ª australiana, 51ª “Highlander”, 2ª neozelandese, 1ª sudafricana e 4ª indiana), ma la sproporzione di forze è schiacciante e solo in parte compensata dal sistema di campi minati: 25 battaglioni e trecento carri armati contro 6 battaglioni tedeschi e 5 italiani, già parzialmente annientati dall’artiglieria. La fanteria inglese deve aprire varchi nei quali si infili il X corpo d’armata, formato dalle divisioni corazzate 1ª e 10ª che devono inseguire e distruggere ciò che resta dell’armata italo-tedesca. La superiorità britannica in uomini e mezzi è, tuttavia, quasi annullata dai campi minati, dove gli attaccanti delle prime ondate devono sacrificarsi per aprire la strada ai compagni dei reparti arretrati. Nella notte del 24 la 9ª australiana riesce a sfondare le difese italo-tedesche, ma il successo è incompleto per l’accanita resistenza incontrata. Il 62° reggimento della “Trento” viene annientato e il costone del Ruweisat resta in mano nemica.
A sud, invece, un’identica manovra, seppure di proporzioni minori, è affidata al XIII corpo, formato dalla 55ª e 44ª britannica, dalla 7ª divisione corazzata e dalla divisione “Francia Libera”, doveva sfondare le posizioni tenute dalla “Folgore” e dalla “Pavia”. In prima linea vi sono tre battaglioni del 187° reggimento (tenente colonnello Bechi), due del raggruppamento Ruspoli e due del 186° all’estrema sinistra. Nel corso della battaglia verranno inviati come rinforzo anche un battaglione della “Pavia”, il 31° guastatori e le artiglierie del gruppo “Celere”, della “Trieste” e della “Pavia”. Le fanterie britanniche attaccano verso mezzanotte, ma i paracadutisti non cedono di un millimetro, resistono nelle buche, si fanno passare sopra i carri armati per poi attaccarli con molotov, mine anticarro e bombe Passaglia. I pezzi da 47 millimetri sparano solo a bruciapelo per far saltare un cingolo, poiché gli artiglieri sanno bene che i carri sono invulnerabili.
Nella notte del 24 ottobre il 186° viene quasi annientato dalla furia dell’attacco e non è un caso se la maggior parte delle Medaglie d’oro al valor militare di quei giorni venne concessa a membri di quel reggimento. Sul fronte tenuto dal 187° reggimento il tenente Ferruccio Brandi difende il suo centro di fuoco, ma gli Sherman inglesi sfondano le linee e lo oltrepassano. Brandi passa allora al contrattacco e con una molotov incendia un carro. Proprio in quel momento una raffica di mitragliatrice lo colpisce al volto e gli fracassa la mandibola. Dominando il dolore, Brandi si rialza, reggendosi la mandibola, orrendamente sfigurato, e incita i suoi uomini a proseguire la resistenza per più ore, oltre ogni umana possibilità, finendo poi catturato dal nemico, ammirato da tanto valore.
Il sergente maggiore Dario Pirlone, sempre nella giornata del 24, difende la postazione col suo pezzo controcarro, infliggendo perdite terribili e catturando anche uno Sherman che aveva cercato di schiacciarli. Poi il suo pezzo viene colpito e messo fuori uso, i serventi cadono uno dopo l’altro e anche lui ha le gambe maciullate, ma riesce comunque a rimettersi in piedi e a sparare con la pistola gridando agli inglesi: “Voi non mi avrete vivo! Viva l’Italia!”. Poi tutta la postazione viene travolta.
È il 25 ottobre e la battaglia è entrata in una fase di stallo. A sud gli italiani hanno tenuto bravamente, mentre a nord lo sfondamento operato dagli australiani ha permesso al X corpo corazzato britannico di passare i campi minati solo per essere contrattaccato dalle divisioni panzer di Rommel, prontamente rientrato da una licenza per malattia.
Il piano di Montgomery sembra così fallito, ma la caparbietà dei britannici è tale da provocare una guerra di logoramento, molto simile alle battaglie della Grande guerra.
Il paracadutista Gerardo Lustrissimi viene ucciso in circostanze incredibili, che possono essere riassunte solo citando per intero la motivazione della sua Movm: “Lanciafiammista addetto allo sbarramento del varco di un campo minato, attaccato da preponderanti forze, sotto violento e continuo fuoco dell’artiglieria, per oltre 24 ore si prodigava in ogni modo con il suo speciale mezzo di lotta per impedire il transito dei carri armati dell’avversario. Esaurito il liquido da lanciafiamme, continuava a combattere, lanciando bottiglie anticarro, fino a che caduto ferito, veniva catturato dall’avversario. Appena riavutosi, con un piccolo gruppo di compagni impegnava con audace corpo a corpo le sentinelle, e riusciva a rientrare nelle nostre linee. Ripreso il suo posto di combattimento e colpito nuovamente persisteva nella strenua impari lotta. Esaurite le munizioni, stretto da vicino da carri armati che irrompevano ormai attraverso il varco, sdegnoso di arrendersi, dissotterrava una mina e, a tre metri di distanza, la lanciava sotto il carro armato di punta che veniva distrutto dall’esplosione, investito dalla vampa e dalle schegge trovava gloriosa morte”.
Il 26 ottobre la 9ª australiana e la 51ª scozzese guadagnano ancora terreno attorno a Kidney Ridge, ma vengono fermati dai contrattacchi della 15ª panzer e della “Littorio”. Il capitano Vittorio Piccinini del 133° reggimento carristi partecipa al contrattacco vittorioso. Il tenente colonnello Giuseppe Bonini, comandante del reggimento e il tenente colonnello Casamassima, comandante del IV battaglione, muoiono nei propri carri e sono sostituiti da Piccinini, che guida i carri superstiti. Anche l’M13 di Piccinini viene colpito e l’ufficiale resta gravemente ustionato, con una larga ferita dal collo alla spalla. È morente quando viene soccorso e un suo soldato gli dice: “Coraggio capitano”. “Coraggio? – risponde Piccinini –. Di quello ne ho anche troppo”.
A sud continuavano quelli che, dopo la guerra, la storia militare inglese definirà attacchi di alleggerimento ed erano, più realisticamente, tentativi di sfondare linee tenute solo da italiani e quindi, in teoria, più facilmente superabili. Ma non si potevano superare postazioni tenute da uomini come il paracadutista Dario Ponzecchi che, catturato da una pattuglia inglese, ordina ai suoi compagni di sparare su di lui e sul gruppo per evitare che le mine fossero rimosse.
Il 27 ottobre un contrattacco di Rommel fallisce clamorosamente di fronte alla superiorità aerea e allo sbarramento dei cannoni anticarro da 57 millimetri.
(2 – continua)
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