Riprendiamo la narrazione della guerra italiana nel Secondo conflitto mondiale. È difficile, quasi imbarazzante, parlare di una guerra di ottant’anni fa mentre ce n’è una in corso, destinata a toccarci sempre più direttamente, o economicamente, o militarmente, o in entrambi gli ambiti. D’altra parte, come scrive Lucio Caracciolo nel suo editoriale dell’ultimo numero di Limes, “la guerra non è la nostra dimensione. Da tre generazioni abbiamo scommesso sulla pace eterna. Facciamo talmente fatica ad accettarne la fine da negare a noi stessi di partecipare ad uno scontro epocale. Non al fronte, ancora. Ma dentro un conflitto che cambia le nostre vite. Non abbiamo molto tempo per recuperare il senso di dove siamo finiti a forza di fingerci nel mondo che non c’è. Dovere verso noi stessi. Solo allora, forse, potremo gestire le conseguenze della nostra inconsapevolezza” (n. 6/2022).



Prendere coscienza che siamo attualmente in guerra non comporta né una chiamata alle armi né la partecipazione a una marcia della pace: questa presa di coscienza ci obbliga a scegliere cosa fare ed essere, purché si scelga. Ed è proprio il dovere di scegliere che è il nostro più grande diritto e privilegio; diritto e privilegio che sono negati ai cittadini russi e bielorussi.



E allora esaminiamo insieme il decorso della guerra mondiale di ottant’anni fa ripartendo dal gennaio 1942. Durante l’inverno gli italiani dovettero ingegnarsi con molti modi per soddisfare i bisogni più elementari come mangiare o scaldarsi. Un modo interessante fu escogitato con gli “scaldaranci”: palle di cartapesta mista a segatura e polvere di cartone che sostituivano la legna e il carbone. Il mercato nero fioriva nonostante le grida manzoniane del regime fascista, e le fidanzate dei ragazzi al fronte si sposavano a distanza tenendo sottobraccio un gerarca. Ma se quella dei “matrimoni di guerra” era solo una lugubre pagliacciata, ben più stomachevole fu l’ordine dato dal regime di ingaggiare 158 ebrei romani, obbligandoli a umilianti lavori di manovalanza lungo le banchine del Tevere. Se questo fu l’ennesima riprova della vacua stolidità del regime, più confortante fu la reazione dei romani disgustati dallo spettacolo, come risulta da un rapporto di polizia: “Si sente dire che questo è un errore che il fascismo dovrà scontare”.



Questa ridicola severità di facciata svaniva completamente quando il regime doveva confrontarsi con gli industriali per migliorare quantità e soprattutto qualità di armi e munizioni. Le fabbriche continuarono a produrre carri armati piccoli e poco corazzati, nonché i biplani Fiat CR-42 quando nessun belligerante utilizzava più biplani lenti e vulnerabili. C’era davvero da rimpiangere il regime liberale che aveva guidato l’Italia nella Grande Guerra: aveva saputo imporre agli industriali obiettivi di produzione che permisero la vittoria finale. Questo tanto per smentire, ancora una volta, che i regimi parlamentari sono “deboli” e le dittature “forti”.

In più il già esiguo potenziale militare italiano continuava a essere disperso su molteplici fronti, come in Jugoslavia, dove l’occupazione in due anni ci costò 16mila caduti e un grande dispendio di forze a fronte di nulla. Ma ancora più tragica fu la decisione di Mussolini di aumentare gli effettivi del Corpo di spedizione in Russia, che si era comportato con valore ed efficienza grazie alla guida energica e sapiente del generale Messe. Tanto era stato il successo che il Duce impose a Cavallero il trasferimento di altre due divisioni di fanteria (Sforzesca, Cosseria e Ravenna) con il più e il meglio delle nostre truppe alpine (divisioni Tridentina, Cuneense e Julia) per un totale di 220mila uomini. Questo salasso, assai gradito dai tedeschi che già nell’estate del 1942 erano consci di non avere più risorse bastanti per piegare l’Armata Rossa, fu determinante per gli esiti della guerra nel Mediterraneo e in Africa, l’unico teatro dove l’Italia aveva vitali interessi strategici.

Proprio su questo fronte la marina e l’aviazione italiana, supportata dal X corpo aereo tedesco, avevano conseguito il dominio del Mediterraneo, riducendo le perdite e annullando ogni capacità offensiva dell’isola di Malta. Grazie a questa supremazia i convogli poterono affluire indisturbati ai porti libici e, dopo mesi di combattimenti contro forze britanniche di gran lunga superiori, gli italo-tedeschi sfondarono le difese di Tobruk determinandone la caduta. Ben 33mila britannici furono presi prigionieri insieme a un quantitativo incalcolabile di materiale militare che Rommel utilizzò immediatamente così che, come racconta Paolo Caccia Dominioni, gli italo-tedeschi vestivano uniformi britanniche e utilizzavano mezzi britannici: e così si poteva vedere un esercito britannico inseguito nel deserto da un altro esercito britannico.

Fu questo il momento più importante delle nostre forze armate durante la guerra. Il nostro esercito in Africa sopperiva alle carenze di equipaggiamento con l’addestramento e il coraggio, guidato da ufficiali valorosi e tenaci, con perdite altissime e uno spirito di sacrificio straordinario. Ma la perizia combattiva tedesca e il coraggio degli italiani non potevano bastare a sfondare le difese di El Alamein, dove la nostra avanzata si arenò inesorabilmente mentre Malta, sul punto di cadere, riprendeva a vivere. Il rinvio continuo dell’operazione “Hercules” con cui l’isola doveva essere conquistata determinò la rinuncia all’impresa dato che il Corpo italo-tedesco con appena 70 carri armati non era riuscito a sfondare le difese di El Alamein.

Oggi, in quei luoghi, a 110 chilometri da Alessandria, esiste un cippo con la famosa scritta “Mancò la fortuna, non il valore”. Un’affermazione vera a metà, perché se il valore certamente non mancò, fecero difetto logistica, pianificazione, preveggenza, strategia e non solo da parte italiana. E, come si sa, i dilettanti amano la tattica e i professionisti studiano la logistica: un principio valido ancora oggi. Per tutti.

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