Ogni decennale riprendo a leggere un libro che è stato uno dei miei livres de chevet, ossia Alamein 1933-1962 di Paolo Caccia Dominioni, conte di Sillavengo. È uno dei capolavori della memorialistica italiana sulla Seconda guerra mondiale, ancora oggi di lettura scorrevole e commovente, rivestito di ironia su tedeschi e inglesi e autoironia sugli italiani.



Ma è su queste pagine che ho iniziato, a undici anni, a comprendere di cosa siano stati capaci gli italiani in terra d’Africa, sia pure posti in condizioni di inferiorità del tutto disperanti. E così a ogni decennale ripercorro la corsa dell’armata italo-tedesca da Tobruk a El Alamein, arricchendola ogni volta di nuovi dettagli. E provo quasi uno smarrimento, perché mi accorgo che mentre accumulo informazioni sull’eroismo dei nostri nonni, questa crescita di conoscenze è inversamente proporzionale alla coscienza dei miei contemporanei italiani, così definibili, almeno, per la carta di identità.



Come narrato nelle puntate precedenti di questa storia italiana della seconda guerra mondiale, l’autunno del 1942 si stava rilevando decisivo per le sorti del conflitto. A Stalingrado l’Armata rossa resisteva accanitamente all’attacco della Wehrmacht, mentre nell’arcipelago delle Salomone e, in particolare, sull’isola di Guadalcanal si combatteva una colossale battaglia di logoramento tra americani e giapponesi con perdite colossali in navi, aerei e uomini da una parte e dall’altra. Con la differenza che le perdite giapponesi non erano ripianabili, mentre sempre nuove flotte marittime ed aeree venivano prodotte dai cantieri statunitensi.



Quello africano era, rispetto agli scontri titanici in Russia e nel Pacifico, un teatro molto minore, eppure ugualmente decisivo per le sorti del conflitto. Dopo che Rommel aveva cercato di sfondare le difese britanniche a El Alamein in luglio e in agosto era subentrata una stasi del fronte, in attesa dell’inevitabile offensiva britannica. Un’offensiva che sarebbe stata di violenza e proporzioni mai viste, mentre gli italo-tedeschi erano privi di sostanziali rinforzi e rifornimenti. La mancata conquista di Malta in luglio aveva fatto sì che l’isola fosse tornata ad essere una base aeronavale che decimava i nostri convogli per la Libia. Inoltre il nostro servizio informazioni era già venuto a conoscenza, almeno dall’inizio di ottobre, che gli angloamericani stavano per sbarcare in Africa settentrionale. Il generale Bernard Law Montgomery sapeva dello sbarco in Marocco previsto per l’8 novembre. Proprio per questo era intenzionato ad annientare gli italo-tedeschi prima che questi potessero ritirarsi. Sarebbe stata l’ultima battaglia condotta esclusivamente dall’impero britannico: in prospettiva, gli Stati Uniti sarebbero stati la potenza leader in campo occidentale per i decenni a venire.

Ad attendere l’urto di britannici, neozelandesi, sudafricani, australiani e indiani stavano le sperimentate divisioni corazzate tedesche 15a e 21a, insieme alla 90° divisione di fanteria leggera. Ad esse si erano aggiunte la 164a divisione di fanteria e la 22a brigata paracadutisti: fanteria, dunque, per combattere non una battaglia di movimento ma d’attrito, con campi minati e trinceramenti da difendere, postazioni fisse da tenere sotto il bombardamento dell’artiglieria.

Le divisioni italiane, sicuramente le più efficienti mai messe in campo durante la guerra, erano le più adatte al terreno su cui combattevano. La divisione motorizzata “Trieste” era stata destinata alla riserva a nord, lungo la litoranea, dove in prima linea erano stati schierati quattro battaglioni di bersaglieri: è il caso di notare come Rommel confidasse nel valore dei fanti piumati, distintisi innumerevoli volte in quella campagna. In corrispondenza del costone di Miteyria, alternata a reparti della 164a c’era la divisione “Trento”, sul fronte africano da un anno e mezzo. Alla sua sinistra un’altra veterana, la divisione “Bologna”, in Africa dall’inizio della guerra e poi, insieme alla brigata paracadutisti tedesca “Ramcke”, seguiva un’altra veterana, la “Brescia”, sostenuta nelle retrovie dalle divisioni corazzate “Ariete” e “Littorio”. Ancora più a sud, poco prima della “Pavia”, veterana al pari della “Bologna” e della “Brescia”, vi era la divisione paracadutisti “Folgore” di cui si è già parlato.

La guerra sostenuta da queste divisioni, oltre che dal 7°, 8°, 9° e 12° reggimento bersaglieri e altri reparti minori come il leggendario 31° battaglione guastatori, comandato dal maggiore Paolo Caccia Dominioni, fu tragica e spaventosa come ogni conflitto ma con una dose di pietas e di cavalleria fra le parti del tutto assente sul fronte russo. Per l’Italia, il fronte africano rappresentava l’ultimo baluardo di un impero appena nato e già arrivato alla sua fine. Questo patriottismo si rifletteva nella psicologia dei combattenti che rappresentavano pienamente la storia dell’esercito italiano unitario. Poveri cristi, valorosi, disciplinati, frugali: questi erano i soldati delle divisioni di fanteria, epigoni dei loro padri e fratelli che avevano combattuto sul Carso e sulle Alpi: ardimentosi al limite della follia, educati da una tradizione risorgimentale ed eroica gli uomini dei reparti d’élite; bersaglieri, carristi e paracadutisti.

Lo spirito di sacrificio era diffuso non solo tra tenenti e capitani ma anche tra gli ufficiali superiori e i generali. Paolo Caccia Dominioni ricorda nel suo Alamein i colonnelli Scotti della “Trento” e Alessandro Gloria della “Bologna” (soprannominato “il cipresso”, per l’alta statura, il severo portamento e la rigorosa osservanza religiosa), il tenente colonnello Arrigo Dall’Olio, comandante del 40° reggimento, mutilato di guerra, orbo e sfigurato ma ancora vigoroso e capace, decorato con tre medaglie d’argento e altrettante di bronzo. Nella “Folgore” vi erano ex cavalieri come Felice Valletti Borgnini, il milanese Guido Visconti di Modrone e il siciliano Francesco Vagliasindi del Castello di Randaccio. Alberto Bechi di Luserna, ultimo della sua casata, con avi e padre tutti caduti in battaglia, comandava il IV battaglione ed era tenente colonnello anche il principe Marescotti Ruspoli di Poggio Suasa. Quella dei Ruspoli era una famiglia dell’antica nobiltà romana che conduceva una specie di guerra personale contro l’impero britannico. Carlo comandava la 91° squadriglia del 4° stormo caccia e un altro fratello era pilota di aerosiluranti. Oltre a Marescotti, che quarantanovenne aveva superato il corso di paracadutismo, c’era anche il fratello maggiore Costantino, cinquantunenne, “alto gran signore, pipa in bocca e mannaia al fianco”, scarpe da ginnastica e camicia sbrindellata, sempre pacato e calmo come se fosse a un ricevimento.

Nei due mesi che intercorsero tra l’ultima offensiva di Rommel e la terza decisiva battaglia di El Alamein i combattenti dovettero affrontare le malattie, la sete, gli insetti, la dissenteria. Le condizioni logistiche degli italiani erano, al solito, pessime ma i soldati attendevano con fatalismo e senso del dovere la tempesta che si sarebbe scatenata su di loro.

(1 – continua)

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