In questi primi mesi dell’anno, in diverse località dell’Italia centrale, si sono svolte le commemorazioni per gli ottant’anni dai bombardamenti del 1944, un passaggio chiave della storia del nostro Paese e una ferita in qualche modo ancora aperta.
Rispetto ai bombardamenti di inizio 1944, tutto cominciò però un anno prima, nel gennaio 1943, quando si tenne a Casablanca la famosa conferenza in cui Churchill e Roosevelt decisero la linea strategica da seguire per vincere e condurre fascismo e nazismo alla “resa incondizionata”. La prima parte del piano prevedeva l’invasione dell’Italia, ritenuta a ragion veduta più vulnerabile rispetto alla Germania di Hitler. Come è noto, tale operazione cominciò qualche mese dopo, il 10 giugno in Sicilia, e fu certamente l’evento che scatenò una reazione a catena, la quale portò alla caduta di un regime fascista già in crisi. Con l’armistizio di Cassibile, reso noto l’8 settembre, e la fuga del Re e del Governo da Roma, il crollo non riguardò appena il regime fascista ma l’intero Stato italiano. A causa di questi eventi, dall’estate del 1943 l’Italia divenne campo di battaglia tra gli opposti schieramenti, e dall’ottobre dello stesso anno, per ordine di Hitler, venne approntata la “linea Gustav”, che divideva in due l’Italia. Per aggirarla, gli anglo-americani nel gennaio del 1944 sbarcarono ad Anzio, e fu proprio in questo contesto che si verificarono i pesanti bombardamenti che oggi, a ottant’anni di distanza, vengono ancora ricordati in diversi comuni del Centro Italia.
Un esempio è Vallecorsa, piccolo comune del frusinate, che si trovò suo malgrado a rappresentare un centro strategico importante e subì pesanti bombardamenti che causarono la totale distruzione dell’abitato e la morte di molti civili. Quasi sessant’anni dopo, nel 2003, verrà riconosciuta al Comune la Medaglia d’oro al valore civile.
Non sono ormai molti i testimoni oculari di quegli eventi: Elena è una di questi, oggi ha 89 anni e una gran voglia di raccontare la sua storia, ma allora ne aveva solo 9 e si trovava a Vallecorsa quella domenica 23 gennaio del 1944. “È un’immagine che non dimenticherò mai. Eravamo andati in Chiesa con i miei genitori e i miei fratelli per partecipare alla messa mattutina. Tutto accadde durante la Comunione. Io vidi le mie sorelle più grandi che stavano facendo la Comunione e sopra di loro la cupola che sovrastava l’altare e la balaustra. Ad un certo punto arrivò la bomba, ci fu un frastuono e non vidi più nulla. Era tutto fumo e polvere, come si vede nei film, e le persone che correvano una sopra all’altra. Vidi il portone della chiesa e alcuni che uscivano, così uscì anche io. Fuori, incontrai mio padre che mi prese in braccio, non ero ferita ma avevo addosso schegge e sangue. Mio padre mi portò a casa, da mia madre, e dopo un po’ arrivarono anche le mie altre quattro sorelle, anche loro stavano bene. Non vedevamo tornare invece mio fratello, Giuseppe, che era stato gravemente ferito perché a differenza nostra si trovava vicino all’organo, nella parte più alta della chiesa. Chissà, il Destino. Quando mio padre lo trovò, lo portò in un ospedale da campo, quello di Vallecorsa infatti era stato distrutto dal bombardamento. Era messo molto male, tanto che all’ospedale gli diedero l’estrema unzione, invece un poco alla volta riuscì a riprendersi. Tuttavia soffriva di attacchi epilettici perché era rimasto ferito alla testa e morì qualche anno dopo la fine della guerra”.
In quei mesi drammatici, Elena viveva con la famiglia in una casa rurale con i materassi fatti di foglie di granturco. I sopravvissuti si aiutavano a vicenda, c’era chi sapeva fare il pane e chi aveva un vitello di cui condividere la carne. Passava sempre anche un aereo “ricognitore”, di cui si sentiva il rumore per tutta la notte. In primavera Elena perse anche il padre Alfonso, maresciallo dei carabinieri e comandante della stazione di Vallecorsa. Fu una mitragliata sparata da un aereo che lo colpì ad una natica a provocare una ferita curabile che però divenne mortale perché mancavano i medicinali. Nel frattempo la guerra e i bombardamenti si intensificavano e la famiglia di Elena fu costretta a dividersi: la mamma e la sorella più grande dovevano occuparsi del padre ferito, mentre lei, insieme a due sorelle più grandi e una più piccola di soli 4 anni, dovettero scappare e dirigersi verso Fondi, dove c’erano dei conoscenti che le avrebbero ospitate.
Ragazze adolescenti e bambine che si mettono in viaggio attraverso le montagne senza i genitori per cercare riparo dalla guerra. E la bontà della gente che trovavano nel cammino: “Noi non avevamo niente, rimanevamo a digiuno per diversi giorni. Mi ricordo che a un certo punto del viaggio vedemmo una specie di tugurio e c’era un tizio con la barba, sporco, che mungeva le capre, le mani erano nere e melmose e c’erano degli otri di pelle scura. Mia sorella più grande chiese del latte per le bambine, lui acconsentì e noi bevemmo il latte da questi otri. Non avevamo niente, per strada mangiavamo quello che trovavamo. Io avevo 9 anni e un carattere vivace, sono viva grazie a mia sorella Franca più grande che non mi ha mai abbandonata. Infine arrivammo a Fondi e fummo ospitate da alcune persone, gente dal cuore d’oro. Finché un giorno capitò quasi un miracolo, perché parlando casualmente con un soldato italiano in divisa scoprimmo che era un nostro lontano parente. Lui ci portò all’accampamento degli ufficiali. Mangiavamo tutti i giorni e io non ci potevo credere. Fu grazie a lui che riuscimmo a tornare a Vallecorsa e a ricongiungerci con mamma e le altre sorelle. Dormivamo in sagrestia e ci coprivamo con i paramenti sacri. E fu lì che ci arrivò la notizia della morte di papà. Mamma parlò con la suora che lo aveva assistito e ci disse che era morto sereno, con lei affianco che pregava”.
Non solo Vallecorsa, anche il territorio dei Castelli Romani è stato duramente colpito dai bombardamenti di inizio 1944. Per ricordare questi eventi, ad Albano Laziale per una settimana ad inizio febbraio, tutte le mattine ha suonato una sirena, la sirena che avvisava dei bombardamenti. Il Comune ha ospitato nei propri palazzi anche una mostra fotografica. Nelle Ville Pontificie, solitamente residenza estiva del papa, si era rifugiata una parte della popolazione di Albano e di Castel Gandolfo, nella convinzione di essere al sicuro anche perché territorio del Vaticano. Gli Alleati, tuttavia, pensando che in quelle Ville si accampassero soldati tedeschi, colpirono duramente. In quello che diventò drammaticamente noto come il “bombardamento di Propaganda Fide”, morirono alcune centinaia di civili innocenti. Nella mostra, le foto di quei tragici eventi, le macerie, le persone accampate, gli sguardi preoccupati ma anche pieni di speranza.
Come una mamma che sorride e tiene in braccio due gemelli appena nati: per la gratitudine verso papa Pio XII per l’ospitalità, ai due bimbi venne messo nome Pio Eugenio e Eugenio Pio. Sono queste le semplici voci di speranza di un’Italia gravemente ferita ma non distrutta.
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