All’inizio del 1943 iniziò a diffondersi in tutto il mondo l’idea che, incredibilmente, l’Asse Roma-Berlino-Tokyo (da cui l’acronimo italiano Ro.Ber.To.) stava perdendo la guerra. Tra agosto 1942 e gennaio 1943 gli italo-tedeschi avevano praticamente perduto il Nordafrica dopo El Alamein e lo sbarco alleato in Marocco; Stalingrado era stata una disfatta epocale e nel Pacifico gli Stati Uniti facevano valere la propria sconfinata superiorità in uomini e mezzi riprendendo l’offensiva. Per quanto riguarda l’Italia si avvicinava l’ora della resa dei conti per Mussolini e per il fascismo e ci si affidava alla resistenza in Tunisia per ritardare l’attacco diretto al territorio nazionale.
Certamente l’esercito tedesco godeva di una incolmabile superiorità qualitativa nei confronti degli angloamericani ai quali si erano aggiunti i francesi che, va ricordato, cambiarono alleato per la seconda volta in tre anni, passando dal collaborazionismo del regime di Vichy alla guerra aperta contro l’ex alleato tedesco.
La testa di ponte tunisina
Malgrado questa superiorità tattica tedesca la situazione della testa di ponte tunisina, premuta da est e da ovest dagli Alleati, apparve subito disperata. La ritirata voluta da Rommel (eccellente tattico e pessimo stratega) aveva sì salvato ciò che restava dell’armata italo-tedesca, ma al prezzo di procurare una testa di ponte troppo ristretta, con aeroporti e porti troppo vicini alla Tunisia. Da queste basi partivano le devastanti incursioni che falciavano i nostri convogli e i collegamenti aerei. Le rotte aeronavali tra Sicilia e Tunisia erano diventate “le rotte della morte” ma i piloti e i marinai italiani continuavano a fare il proprio dovere con uno stoicismo che, oggi, stupirebbe se non fosse dimenticato.
Fra i più esposti alla morte erano i piloti e gli avieri del Servizio aereo speciale, gli uomini dei nostri stormi da trasporto che facevano la spola fra la Sicilia e l’Africa a bordo di aerei lenti e scarsamente armati. La stessa situazione orrenda era vissuta dai soldati che venivano trasportati in Libia e in Tunisia, rassegnati o disperati, impotenti come vittime sacrificali sotto l’attacco dei caccia nemici.
Si prenda il caso di un reparto dei cavalleggeri di Lodi, trasferito in aereo il 25 novembre 1942 all’aeroporto di Tripoli. Alla fine di un volo di ottanta minuti circa, gli aerei da trasporto furono attaccati da caccia americani. Uno dei nostri velivoli venne colpito da un proiettile che fece scoppiare una cassetta di razzi fumogeni: il fumo invase la fusoliera dell’aereo e si diffuse il panico fra i soldati. Quando il pilota si abbassò a pelo d’acqua un tenente e alcuni soldati aprirono il portellone e si lanciarono in mare: nessuno di essi fu più ritrovato. La corrente d’aria dissolse il fumo e uno dei soldati, che già si stava buttando, fu trattenuto dai compagni, penzolando all’esterno dell’aereo che riuscì a raggiungere l’aeroporto di Tripoli. Altri soldati erano stati sfracellati dai proiettili esplosivi e giacevano legati al sedile.
Il cacciatorpediniere Saetta
Anche ciò che restava del naviglio leggero finì per immolarsi su quella rotta. Il 3 febbraio 1943 il cacciatorpediniere Saetta e la torpediniera Uragano incappavano in un banco di mine mentre scortavano una grossa petroliera. Il comandante del Saetta, capitano di corvetta Enea Picchio, sceglieva di affondare con la nave che gli era stata affidata. Il capitano Luigi Zamboni, a bordo dell’Uragano, cercava di salvare la propria nave in ogni modo, poi, quando l’affondamento era inevitabile, restava anch’egli a bordo della sua torpediniera dopo aver disposto l’evacuazione dell’equipaggio, inabissandosi insieme agli ufficiali del suo Stato Maggiore che non l’avevano voluto abbandonare. Molti altri ufficiali di Marina italiani erano deceduti in questo modo e l’usanza di affondare con la propria nave fu propria solo delle marine italiana e giapponese. Ma chi si ricorda più di questi eroismi, forse criticabili e irrazionali ma che cui parlano di un’Italia diversa da quella che conosciamo?
Anche soldati e ufficiali del Regio esercito, induriti da due anni e mezzo di guerra si battevano senza risparmio, infliggendo dure perdite a un avversario superiore in uomini e mezzi. Un reparto che si distinse per combattività fu il già citato Raggruppamento esplorante corazzato cavalleggeri di Lodi. Fino alla fine dell’anno svolse un’efficacissima opera di contenimento delle puntate anglo-francesi e, il 9 dicembre 1942, una sua avanguardia occupava Kebili: il reparto era comandato da un brillante sottotenente torinese, un certo Giovanni Agnelli, rampollo del padrone della Fiat, già reduce dal fronte russo e che fu proposto per una ricompensa al valor militare.
La lezione di Rommel agli americani
Il 15 febbraio 1943, Rommel sferrò in Nordafrica un’ultima offensiva contro gli americani, presuntuosi, inesperti e poco addestrati. Il risultato dell’attacco italo-tedesco fu devastante e gli americani vennero colti completamente di sorpresa. La mossa di Rommel era audace e puntava a impadronirsi del centro logistico di Tebessa, ma il mancato appoggio del generale von Arnim vanificò le già scarse possibilità di successo. Alla fine gli statunitensi avevano perduto 3.600 uomini, in gran parte prigionieri. Fra i protagonisti di questo fatto d’armi ci furono il 5° e il 10° reggimento bersaglieri. Dopo di che Rommel ritornò in Germania e al suo posto arrivò il generale Giovanni Messe, già ottimo comandante del Corpo di spedizione italiano in Russia. L’ultimo atto della guerra in Africa era ormai imminente, poiché l’8a armata di Montgomery era pronta ad attaccare le posizioni italiane sul Mareth. In quel settore non c’erano truppe tedesche, per cui Montgomery pensava di poter farsi strada abbastanza agevolmente fino a Tunisi. Messe, però, era altrettanto preparato e determinato a ritardare quanto più possibile l’invasione del territorio nazionale.
Bombe sulle grandi città
Ciò che fece veramente crollare il fronte interno italiano furono la fame e i bombardamenti. La penuria di generi alimentari si era aggravata negli anni e non era una novità: ma i bombardamenti che erano stati relativamente leggeri fino all’autunno del 1942 ora divennero massacranti e le principali città italiane, a Nord e a Sud, furono martellate come mai prima d’ora.
Il 22 ottobre 1942 Genova venne duramente colpita da cento Lancaster inglesi. L’impressione fu enorme, tanto che il giorno dopo un secondo bombardamento, peraltro poco efficace, provocò il panico più irrefrenabile. Il rifugio della galleria delle Grazie, sotto piazza de Ferrari, era strutturato male e poco illuminato. La folla scese di corsa le scale, qualcuno inciampò e poi altri ancora fino a formare una catasta umana mentre centinaia di persone continuavano a premere costruendo un muro di persone asfissiate. Morirono quasi tutti, non per le bombe ma per il panico: ben 354 cadaveri, ritti in piedi, schiacciati uno contro l’altro furono portati via dai soccorritori. La sera del 24 ottobre toccò a Milano, colta completamente di sorpresa da una violentissima incursione inglese: i morti furono almeno 171. Milano venne nuovamente sventrata il 14 febbraio e non furono colpite solo le fabbriche dell’Alfa Romeo, Caproni e Breda, non solo la stazione centrale ma anche il centro: Palazzo reale, la Pinacoteca ambrosiana, il Teatro Lirico. I morti furono 133.
Torino fu ripetutamente colpita nell’autunno e l’8 dicembre il bombardamento fu micidiale, con 212 morti. Al termine del ciclo di incursioni i morti accertati erano 558. Il 4 dicembre toccò a Napoli, colpita di sorpresa dai quadrimotori americani, accodatisi a una formazione tedesca e confusi con questi. Così i napoletani, poco prima del tramonto, mentre già si preparava il Natale, furono massacrati mentre passeggiavano tranquillamente per le strade del centro. È impossibile descrivere l’orrore di un bombardamento aereo: si videro cadaveri decapitati camminare ancora per qualche passo prima di crollare a terra, e si dovettero disseppellire decine e decine di morti, schiacciati negli scantinati sotto il peso dei palazzi colpiti in pieno. Quel giorno a Napoli i morti furono almeno 159, probabilmente molti di più. Napoli fu ulteriormente colpita l’11 gennaio 1943 (136 morti) il 7 febbraio (100 morti) e poi ancora il 20 e il 24 febbraio (rispettivamente 186 morti e 119 morti) e il 24 febbraio. Napoli doveva diventare la città martire della guerra con più di 100 incursioni subite. A fronte di tale massacro la nostra difesa antiaerea fu quasi sempre inefficace, e questo anche nei primi mesi del 1943.
Poi toccò alla Sicilia patire una serie di incursioni terrificanti, come quella del 1° gennaio 1943 a Palermo con 139 morti e addirittura 226 morti il 15 febbraio e poi Messina, Catania, Trapani e altre città dell’isola.
L’orrore di Cagliari
Particolarmente sventurata fu Cagliari. In quel terribile febbraio 1943 i bombardieri americani la colpirono il 17 (220 morti a Cagliari e 100 nel solo paese di Gonnosfanadiga), il 26 (73 morti) e il 28 (200 morti). Dopo di che la popolazione iniziò ad abbandonare la città per sfuggire a questo castigo, di un orrore quasi soprannaturale. Gli italiani, anche e soprattutto gli innocenti, anche i bambini, sperimentavano nella propria carne una violenza spaventosa, inaudita; la stessa che, prima di loro, avevano subito gli abissini, massacrati a centinaia di migliaia quando l’Italia fascista aveva aggredito l’Etiopia; la stessa subìta dagli abitanti di Barcellona ad opera dei nostri bombardieri, quando il fascismo mostrava l’arroganza del più forte. Mussolini e i suoi complici, civili e militari, avevano seminato il vento e gli italiani più incolpevoli raccoglievano tempesta.
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