Nel disco dei Pink Floyd The Final Cut vi è un brano di travolgente e commovente bellezza, When the Tigers Broke Free. Laddove si tratta non di felini ma carri armati Tigre tedeschi. “Mancava poco all’alba/ una miserabile mattina del nero ’44/ quando al comandante in prima linea/ che aveva chiesto di ritirare i suoi uomini/ fu detto di star fermo e di resistere/ e i generali ringraziarono, mentre gli altri reparti tennero indietro i carri nemici ancora per un po’/ e la testa di ponte di Anzio fu salvata al prezzo di poche centinaia di vite ordinarie/ E il gentile re Giorgio/ mandò un messaggio alla mamma quando seppe che papà se n’era andato/ ricordo che era/ a forma di pergamena/ adornato di foglie dorate/ e lo trovai un giorno in un cassetto con vecchie fotografie/ e i miei occhi ancora si inumidiscono a ricordare la firma di Sua Maestà/ col suo sigillo di ceralacca/. Era buio dappertutto/ il terreno era gelato/ quando i Tigre sfondarono/ e nessuno sopravvisse/ della compagnia C dei Fucilieri reali/. Furono lasciati tutti là/ gran parte morti e gli altri morenti./ Ed ecco come l’Alto Comando mi portò via mio papà”.



Il tenente Eric Fletcher Waters, padre di Roger, era un convinto antifascista che aveva rinunciato alle proprie idee pacifiste pur di poter combattere il nazismo. Il suo corpo non è mai stato ritrovato e il suo nome si trova iscritto, con centinaia di altri, nel cimitero di Cassino.

Era la “Miserable Morning” del 18 febbraio e il contrattacco tedesco che mirava a spazzar via la testa di ponte di Anzio fu sconfitto col sangue di migliaia di uomini e con l’artiglieria che non difettava agli Alleati, e così fu anche per un nuovo assalto tedesco, scatenato il 28 febbraio. A parte qualche leggero cedimento locale, gli americani resistettero bene, infliggendo perdite spaventose alle ondate d’assalto germaniche e l’offensiva venne fatta cessare fin dal 2 marzo.



Seguì un lungo periodo di guerra di logoramento con duelli di artiglieria e scontri di pattuglie che indebolirono pesantemente gli opposti eserciti. Da marzo a maggio 1944, e cioè fino all’inizio dell’offensiva finale che doveva portare alla conquista di Roma, Alleati e tedeschi persero circa 10mila uomini per parte per cause belliche, ma solo gli Alleati ne persero ben 37mila per malattie. Tali i risultati di una guerra di posizione che, più che contro il nemico, veniva combattuta contro i ratti e le zanzare, oltre che contro la noia. Per combattere questa grande nemica del soldato vennero organizzate corse di scarafaggi con un vorticoso giro di scommesse. I ripugnanti insetti venivano catturati e verniciati con i colori delle scuderie, rinchiusi dentro vasi di marmellata e poi lasciati cadere al centro di un cerchio. Il primo insetto che riusciva a raggiungere la circonferenza vinceva la gara.



Questo reciproco logoramento, però, finì per favorire la strategia complessiva alleata. Per quanto lo sbarco di Anzio del 22 gennaio fosse stata un’operazione sballata dal principio alla fine, la tenacia dei soldati anglo-americani fece sì che i tedeschi logorassero le uniche riserve disponibili sul fronte occidentale e cioè la XIV armata di Mackensen. Queste unità non sarebbero apparse sul fronte normanno quando si verificò l’invasione e si può dire che, solo per questo fatto, l’operazione Shingle fu un successo.

Nel frattempo la 34esima divisione americana e il corpo di spedizione francese si dissanguavano per conquistare le alture intorno a Montecassino. Venne fatto un nuovo tentativo mandando all’attacco la II divisione neozelandese e la IV divisione indiana, previo bombardamento dell’abbazia. Su questo argomento è stato scritto molto e, addirittura, qualche polemista ha parlati di inimicizia nei confronti della Chiesa cattolica da parte degli anglo-americani. Niente di più falso, dato che, negli Stati Uniti, i cattolici costituivano una parte rilevante dell’opinione pubblica. Il fatto era che, negli stessi soldati cattolici, la visione dell’abbazia provocava veri e propri incubi.

Ancora oggi, quando si visita il cimitero del Commonwealth, a sud di Cassino non si può non notare come l’abbazia domini tutta la zona e, se ci immedesimiamo in coloro che combatterono ai piedi della montagna, è inevitabile condividere quell’impressione. Ma, in un esercito, i soldati combattono e i generali danno gli ordini, a meno che gli stessi generali non sappiano più cosa fare e cerchino consenso nei superiori e nei subordinati: il che è precisamente quanto avvenne nell’alto comando alleato.

Così la mattina del 15 febbraio 142 quadrimotori e 114 bombardieri medi schiacciarono l’abbazia, sotto 576 tonnellate di bombe. Moltissimi civili morirono nel bombardamento perché uscirono dai ripari tra un’ondata e l’altra. Una bomba d’aereo si infilò addirittura nel sepolcro di San Benedetto ma, miracolosamente, non esplose. Secoli e secoli di tesori artistici vennero polverizzati in poche ore.

Da un punto di vista puramente militare il bombardamento fu un totale disastro. Le truppe indiane erano, per necessità, vicine al monastero e subirono gravi perdite, del tutto evitabili. Oltre a ciò, l’abbazia era molto robusta e le sue macerie offrirono un magnifico riparo ai granatieri della 90esima leggera che vi si trincerarono con la consueta maestria. Gli attacchi dei gurkha nepalesi e dei neozelandesi, tra cui un battaglione maori, furono respinti con perdite spaventose.

Lontano da quel campo di battaglia, nella zona dell’Ossola, veniva combattuta un’altra battaglia, quasi insignificante per le sue dimensioni. Appena una dozzina di morti da parte partigiana e decine di caduti da parte tedesca. Chi dice che la Resistenza fu poca cosa può anche aver ragione, per certi versi: ma che siano caduti insieme, da fratelli d’armi, il liberale Filippo Beltrami, il cattolico Antonio di Dio e i comunisti Gianni Citterio e Gaspare Pajetta è indicativo di quella che sarebbe stata la nuova Italia. Filippo Beltrami, milanese, aveva 36 anni. Architetto affermato, il suo salotto era un cenacolo umanistico con ospiti come Eugenio Montale. Avrebbe potuto benissimo aspettare la fine della guerra e andò a giocarsi la vita tra Cusio e Ossola. Antonio Di Dio, siciliano, monarchico e cattolico, campione di fioretto, aveva raggiunto il fratello partigiano Alfredo in Valle Strona. Gianni Citterio, dirigente del Partito Comunista, era al suo fianco come il giovane Gaspare Pajetta, fratello minore di Giancarlo e Giuliano, figure eccezionali della Resistenza e del dopoguerra.

Dopo aver conseguito diversi successi nell’autunno del 1943, la banda partigiana Valstrona andò in pezzi nel gennaio del 1944 e Beltrami era rimasto fortemente deluso. La volontà di riscatto, se necessario con la propria vita, insieme al desiderio di salvare la vita dei suoi, fu più forte di ogni considerazione tattica: “Perché sempre fuggire? Ora siamo in pochi ma dovremmo essere dei leoni! Tutti i vigliacchi se ne sono andati. Se attaccheranno, combatteremo!”. Non era un comportamento raro. Accadeva spesso che nelle formazioni partigiane, dove l’esempio contava più del grado, i comandanti fossero i primi ad andare all’assalto e gli ultimi a ritirarsi. Ciò ovviamente arrecava perdite irreparabili fra gli uomini più addestrati e capaci.

Il 13 febbraio i tedeschi partirono dalla strada di Megolo e salirono verso le baite dove erano piazzati i partigiani. Il reparto di Beltrami avrebbe potuto sganciarsi, ma non lo fece per proteggere gli altri partigiani. Fu per questa abnegazione, quindi, e non solo per senso dell’onore, che gli uomini di Beltrami vennero annientati: con il capitano restarono uccisi anche Pajetta, Di Dio, Citterio e altri otto uomini, mentre gli altri riuscirono a ritirarsi. Alberto Li Gobbi, ufficiale dell’esercito, agente di collegamento con gli Alleati, prese il comando dei superstiti e riuscì a guidarli verso la salvezza. Pesanti le perdite tedesche, 45 morti e moltissimi feriti. Il capitano tedesco Ernst Simon, colpito dal coraggio dimostrato da Beltrami e dai suoi, diede ordine che le salme venissero riconsegnate alle famiglie per una sepoltura onorevole.

Chi si rechi oggi a Megolo troverà un’atmosfera irreale. Si può lasciare l’auto vicino al cimitero e poi risalire a piedi i tornanti verso le baite che furono difese da Beltrami e dai suoi. Qui c’è solo il silenzio, le baite diroccate, un bosco di castagni e, poco più a valle, un monumento commemorativo. Ma quel che più conta è che comunisti come Citterio e Pajetta morirono a fianco di Beltrami e di Antonio Di Dio che non lo erano affatto. In quel bosco, all’insaputa dei più, iniziava la nuova Italia.

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