Da poco disponibile per le edizioni Fede & Cultura, In fuga dalla torre di John Gerard (prefazione di E. Sala) rappresenta un documento straordinario. Il sottotitolo è eloquente: L’autobiografia di un gesuita ai tempi della persecuzione anglicana. Il libro si legge come un romanzo d’azione, con un protagonista che potrebbe essere uscito dalla penna di un Dumas, ma, in realtà tutto quello che leggerete in queste pagine corrisponde a verità assoluta: le vicende si snodano fra la tarda età elisabettiana e i primi anni del regno di Giacomo I; nel 1606, poi, in seguito alla Congiura delle Polveri, John Gerard divenne l’uomo più ricercato d’Inghilterra e dovette fuggire dal Paese, per non tornarci mai più.



Gerard era un aristocratico che, nella sua prima giovinezza, decise di entrare nella Compagnia di Gesù: studiò in Francia e a Roma, e, una volta consacrato sacerdote, tornò in Inghilterra. Era il 1588, decisamente l’anno peggiore, quello in cui le navi di Elisabetta I affondarono l’Armada spagnola; da lì in poi, la sovrana, cui Elisabetta Sala ha dedicato negli anni scorsi il saggio Elisabetta la Sanguinaria (Ares, 2018) passò a stornare la minaccia cattolica interna: almeno trentatré, fra sacerdoti e civili, finirono al patibolo con l’accusa di avere “simpatizzato per gli spagnoli”.



In questo clima così duro e ostile, e anche rischiosissimo, i missionari e i sacerdoti cattolici operavano dunque a rischio della vita, dato che l’anglicanesimo non era, come talora si legge, una forma smorzata e delicata di protestantesimo, una mezza misura fra antica e nuova fede: esso era invece una religione di Stato, spietata e ritagliata secondo i desiderata della sovrana, e tenacemente, crudelmente anticattolica. Chi non partecipava alle funzioni religiose di Stato veniva bollato come “Ricusante”, e finiva in bancarotta a causa delle pesantissime multe. Discrezionalmente, il Consiglio della Regina poteva, inoltre, sottoporre ai Ricusanti il giuramento all’atto di supremazia, il cui rifiuto comportava la condanna a morte per alto tradimento, praticata attraverso lo squartamento da vivi. Un sacerdote come Gerard era punibile in questo modo anche solo per aver rimesso piede in patria: addirittura, in quei tristi e tragici anni, in Inghilterra si aggiravano i cosiddetti priest hunters, “i cacciatori di preti”, che della caccia al sacerdote cattolico avevano fatto un lavoro e un mezzo di sostentamento.



Eppure, benché vessati, perseguitati, sotto la spada di Damocle della paura, i Ricusanti erano sempre pronti, a frotte, a ospitare un sacerdote cattolico e a fargli celebrare sotto il loro tetto una santa Messa per tenere viva la fede cattolica. I missionari si muovevano in incognito, vestiti in abiti borghesi, fingendosi gentiluomini, mercanti, marinai, ed erano braccati anche dagli agenti della Corona, che costituivano uno dei servizi segreti più efficienti e spietati del tempo. Dopo i primi casi di martirio, del resto, le famiglie aristocratiche dei Ricusanti si organizzarono, attrezzando le loro dimore: in esse, grazie all’intervento di abilissimi falegnami (tra i quali quel “Little John” di cui parla Padre Gerard), fecero costruire tra le pareti nascondigli perfettamente mimetizzati, detti priest holes, alcuni dei quali sopravvissuti sino ai giorni nostri, nei quali, in caso di ispezioni governative, i preti che celebravano clandestinamente potevano sparire in pochi istanti.

Molti amici e confratelli di Padre Gerard passarono anni in prigione, o vennero torturati orribilmente, o furono squartati nelle pubbliche piazze per la grave colpa di avere celebrato Messa. Nel mondo cattolico d’Oltremanica si diceva che era davvero un peccato che i seminari inglesi di cui era disseminata l’Europa (particolarmente famosi furono quelli di Valladolid, Roma, Douai, Saint–Omer) formassero sacerdoti tanto eruditi, coraggiosi, santi, per poi mandarli come agnelli al macello in terra di eretici. Di questa genìa intrepida, padre John Gerard era uno degli esponenti di spicco: alto, forte, coltissimo e insieme molto umile, egli esalta sempre i meriti altrui, minimizzando le sue imprese incredibili, come il ruolo importantissimo che egli ebbe nel preservare la fede in Inghilterra. Addirittura, Gerard glissa sul suo eroismo durante le torture (ma non lo tacciono le lettere degli amici), sino ad affermare che Dio gli ha risparmiato il martirio perché l’ha trovato meno santo dei suoi confratelli. Addirittura, così egli racconta il suo stato d’animo dopo la cattura: “Ogni idea di fuga era svanita, e, al suo posto, sentivo una grande felicità, perché mi era stato concesso di soffrire tutto ciò per amore di Cristo, e ringraziai Nostro Signore come meglio potei”.

Anche in carcere, tuttavia, padre Gerard trova modo di esercitare il suo ministero, ricevendo tantissimi fedeli – al punto che, spesso, c’erano sei o sette persone in attesa che dovevano stazionare nella cella accanto alla sua – e, soprattutto, confessando. Fra questi, fra l’altro, egli racconta che c’era “un gentiluomo facoltoso che era stato cattolico per lungo tempo, ma che era vissuto cautamente e quietamente, evitando tutto quello che avrebbe potuto portarlo a conflitto con le autorità”, dunque uno di quelli che venivano chiamati church papists, ovvero “papisti di chiesa”: eppure, a un certo punto, anch’egli era finito in prigione. Anche con questo gentiluomo, Gerard esercita il suo ministero, ammonendolo a cogliere quella che poteva essere forse l’ultima occasione per riflettere sulla sua vita e sullo stato della sua anima, e sulle obbligazioni che aveva verso Dio.

Addirittura, Gerard racconta che anche operando in prigione, riuscì a mandare in seminario molti giovani e ragazzi, alcuni dei quali divennero a loro volta gesuiti e lavorarono in Inghilterra. Altro che troppo debole e indegno della gloria del martirio! Viene invece da pensare che padre Gerard fosse stato risparmiato dalla Provvidenza (egli ebbe una lunga vita, morendo settantatreenne a Roma) non solo per il bene che poté compiere in vita, ma anche perché potesse offrire ai posteri questa testimonianza eccezionale.