Ogni anno, in coincidenza con il 25 aprile, Festa della Liberazione, si torna a parlare di Resistenza. La narrazione dei fatti è spesso demandata a coloro che sembrano avere l’esclusiva dell’evento, che ricordano il contributo dei partigiani alla guerra di liberazione, omettendo (distrattamente?) sia gli oltre 700mila militari italiani che, rifiutando la collaborazione con i tedeschi, furono internati in campi di lavoro in Germania, sia coloro che, continuando ad indossare la divisa, prestarono servizio nelle unità cobelligeranti dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica.



Sono molti i soldati italiani che, opponendosi all’ordine dei tedeschi di deporre le armi, sono caduti nell’adempimento del dovere nelle prime ore dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Non tutti sanno che il primo caduto nella guerra di liberazione è proprio un ufficiale del Regio Esercito, il generale Ferrante Gonzaga. Sono le 20:45 dell’8 settembre 1943. Esattamente un’ora dopo la diffusione alla radio dell’ordine di Badoglio un plotone comandato dal maggiore Udo Von Anvelsleven, della 16a Divisione Panzer, arriva al quartier generale della 222a Divisione Costiera a Buccoli di Conforti (Salerno). Il gen. Gonzaga, comandante di divisione, sta parlando con i suoi ufficiali del proclama di Badoglio, trasmesso dall’EIAR alle 19:42. Von Anvelsleven intima a Gonzaga di arrendersi e consegnare le armi. Lo informa inoltre che il quartier generale è circondato da truppe tedesche e mezzi corazzati, che in caso di resistenza avrebbero aperto il fuoco, e che quindi ogni resistenza sarebbe stata vana, provocando terribili conseguenze. È dunque consigliabile deporre le armi ed arrendersi. All’intimazione di arrendersi il generale fa un passo indietro, gridando “All’armi!”.



Mentre i suoi uomini sembrano voler reagire con le armi, Gonzaga porta la mano alla fondina della pistola di ordinanza e grida: “Un Gonzaga non si arrende mai! Viva l’Italia”. La reazione degli ufficiali tedeschi che accompagnano Von Anvelsleven è immediata: aprono il fuoco e una sventagliata di mitra colpisce il generale alla testa e al petto, uccidendolo all’istante. L’inutile tentativo di resistenza dei militari italiani presenti viene stroncata a colpi di bombe a mano. Il maggiore Von Anvelsleven, che aveva il titolo di barone, apparteneva ad una nobile famiglia molto nota in Germania ed era ben conosciuto da tutti gli ufficiali della Divisione Costiera, parlava bene l’italiano, e aveva ottimi rapporti con tutti loro. Mentre rientra al comando tedesco incrocia il maggiore Luigi Pinna, suo pari grado e capo di stato maggiore della 222a Divisione, e lo informa affranto che la morte del generale è avvenuta sotto i suoi occhi, nel corso di un confronto con lui.



Pinna si accorge che Von Anvelsleven ha le lacrime agli occhi. Dice che è rimasto ammirato dal contegno del generale, che era morto (testuali parole) “come un Gonzaga deve morire, da gran soldato”. Gonzaga verrà decorato con la medaglia d’oro al valor militare alla memoria concessagli da Vittorio Emanuele III, con la seguente motivazione: “Generale comandante di una divisione costiera, avuta la notizia dell’armistizio tra l’Italia e le Nazioni Unite, impartiva immediatamente gli ordini del caso per opporsi ad atti ostili da parte delle truppe germaniche, pronto a tutto osare per mantenere fede alla consegna ricevuta dal governo di Sua Maestà il Re. Mentre si trovava con pochi militari ad un osservatorio, invitato da un ufficiale superiore germanico scortato da truppa armata a ordinare la consegna delle armi dei reparti della Divisione, opponeva un reciso rifiuto. Minacciato a mano armata dall’ufficiale germanico insisteva nel suo fermo atteggiamento e, portando a sua volta la mano alla pistola, ordinava ai propri dipendenti di resistere con le armi alle intimidazioni ricevute, quando una scarica di moschetto automatico nemico l’uccideva all’istante. Chiudeva così la sua bella esistenza di soldato, dando mirabile esempio di virtù militari, cosciente sprezzo del pericolo, altissimo senso del dovere”.

Nel 1968 Von Anvelsleven, al pari di altri ufficiali tedeschi, viene inquisito per crimini di guerra, ma esce dal procedimento completamente assolto. Tre anni più tardi, nel 1971, quando pubblica il suo diario di guerra, scrive: “Non ero riuscito a salvare quel cavaliere che era caduto per il suo onore. Avrei potuto io stesso essere vittima di quel funesto momento”.

Ferrante Gonzaga era figlio di una lunga tradizione militare. Il padre, generale principe Maurizio Gonzaga del Vodice (1861-1938), era un eroe della Prima guerra mondiale. Ferito cinque volte durante la Grande guerra, era stato decorato con tre medaglie d’argento e due medaglie d’oro, e insignito dai Savoia con la più ambita delle decorazioni, la Commenda dei Santi Maurizio e Lazzaro. Nella storia militare è conosciuto per due episodi singolari.

Durante la guerra italo-turca che precede la Prima guerra mondiale, il generale Maurizio Gonzaga è in Libia. Nella battaglia di Omni-Sciugabi (15 luglio 1914) i suoi soldati catturano le 14 mogli di Mahmud Hezaui, capo della tribù Habid. Erano state abbandonate dai ribelli in ritirata, in quanto la difesa delle donne non faceva parte delle loro strategie militari. Gonzaga ordina che vengano trattate con rispetto e le fa trasferire a Merg, dove il capo tribù, dopo aver sottoscritto un atto di sottomissione al governo, può riprendersele. Al momento della liberazione Gonzaga regala a ciascuna delle 14 donne un barracano. Questo trattamento cavalleresco fa grande impressione ad una popolazione abituata a ben altre tradizioni, tanto che i notabili arabi, molti anni dopo, ancora narrano questa storia. Il secondo episodio si riferisce alla Prima guerra mondiale, quando Maurizio Gonzaga è al comando della 53esima Divisione di fanteria. Ordina alla banda della divisione di piazzarsi in prima linea, e prima di ogni contrattacco ordina di suonare la Marcia Reale, l’Inno di Garibaldi e l’Inno di Mameli. La musica della 53esima Divisione diventa un mito, come il suo comandante. Gonzaga, tuttavia, ha sempre sostenuto che il meglio della musica era sempre stato “l’accompagnamento” costituito dalle armi delle sue truppe all’assalto.

Il figlio Ferrante nasce a Torino nel 1889, e segue le orme del padre servendo come ufficiale del Regio Esercito, sia nella Prima che nella Seconda guerra mondiale. Al momento della sua morte è anche lui un mito, sia tra i suoi uomini che tra quelli di altri reparti. Ferrante Gonzaga è solo il primo dei caduti della Resistenza, solo un’ora dopo l’annuncio dell’armistizio. Molti altri ufficiali italiani faranno la sua stessa fine nelle ore e nei giorni successivi a Trieste, Firenze, La Spezia, Piombino, Castellamare di Stabia, Nola, Grenoble, in Sardegna, in Corsica, nei Balcani, in Dalmazia, a Spalato, nelle isole greche di Lero, Cefalonia, Rodi e Kos. Anche la Regia Marina versa il suo contributo di sangue il 9 settembre con l’affondamento da parte dei tedeschi della corazzata Roma al largo della Maddalena.

Queste storie sono spesso volutamente dimenticate in ossequio al politicamente corretto, ad una narrazione che attribuisce ai soli partigiani il sacrificio nella guerra di liberazione. Si tratta di storie che devono essere nuovamente raccontate, perché la storia, se deve servire alla costruzione del nostro futuro, deve essere raccontata tutta.

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