A partire dal prossimo 26 gennaio sarà celebrata ogni anno la “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli alpini”, in coincidenza con la battaglia di Nikolajewka del 1943, scontro culminante della tragica epopea della ritirata di Russia. In tempi di revisione storica non sono mancate polemiche sulla data. Nikolajewka è il simbolo di una guerra disgraziata, combattuta dall’Italia insieme ai nazisti contro l’Unione Sovietica.



Va detto che il nostro era un esercito di occupazione e che come tale si è comportato, al di là della vulgata di “italiani, brava gente”, per quanto con colpe infinitamente minori a quelle delle truppe tedesche. Tutto ciò premesso, siccome in guerra il più pulito ha la rogna, non sembra il caso di cancellare un ricordo come questo e si confida che l’articolo che seguirà, diviso in due parti per ragioni di spazio, sappia essere persuasivo di tale assunto.



Ancora una premessa con un paragone. Negli Stati Uniti il Corpo dei Marines ricorda ancora oggi con orgoglio la ritirata verso il porto di Hungnam del dicembre del 1950. 30mila uomini delle forze dell’Onu, circondati da 120mila cinesi, riuscirono ad aprirsi la strada verso la salvezza grazie all’eroismo della 1a divisione marines e di un piccolo reparto di Royal marines britannici, coprendo una distanza di 126 km di terreno montagnoso in dieci giorni di lotta. Una vera impresa che, tuttavia, impallidisce di fronte alla ritirata del Corpo d’armata alpino, che perse il 75% degli effettivi, senza però avere l’appoggio dell’aviazione (che ebbero i marines) e che, con temperature ancora più basse, percorse in 15 giorni una distanza variabile da 200 a 300 chilometri, a seconda dei punti di partenza.



Nella puntata precedente abbiamo rievocato la distruzione del 2° e del 35° corpo d’armata italiano sul Don. I pochi scampati dal massacro del “vallone della morte” di Abuzov si trincerarono a  Tcertkovo, resistendo dal 26 dicembre al 9 gennaio. Con loro vi era Eugenio Corti, sottotenente di artiglieria che ha descritto la sua tragica odissea in I più non ritornano (Bur) e ne Il cavallo rosso (Ares). La battaglia attorno a Tcertkovo continuò nei giorni successivi, ma le difese non cedettero. Le altre divisioni di fanteria e cioè il grosso della “Sforzesca” più il 6° reggimento bersaglieri e reparti delle divisioni “Torino”, “Ravenna”, “Celere” e “Pasubio”, avevano anch’esse sostenuto durissimi combattimenti ma la loro ritirata era stata un poco più agevole e, nei primi giorni di gennaio, potevano considerarsi fuori dalla sacca.

L’unico corpo d’armata che ancora non si ritirava era quello alpino, comporto da “Julia”, “Tridentina”, “Cuneense” e dalla divisione di fanteria “Vicenza”.

Per un mese intero, dal 19 dicembre al 17 gennaio, la “Julia” difese il quadrivio di Seleny Jar e le posizioni attorno a Novo Kalitva senza cedere di un passo e dissanguandosi un giorno dopo l’altro. Impossibile ricordare tutti gli eroi della “divisione miracolo”. Basti pensare che, alla fine di quel ciclo operativo, venne conferita la medaglia d’oro al valor militare a ben venti uomini della “Julia”. Tra essi ricordiamo il sottotenente Vittorio Heusch. Livornese, orfano di guerra, era studente di medicina ma riuscì a partire volontario per il fronte russo. Comandante di un plotone di mitraglieri, diresse il fuoco verso i carri che stavano sfondando le linee. Un carro armato puntò verso un covone dove si erano accalcati i feriti e stava per triturarli. Allora Heusch chiamò il suo attendente e gli comunicò che sarebbe andato contro il carro con le bombe a mano. “Dirai alla mamma che ho compiuto fino in fondo il mio dovere”. L’assalto dei suoi uomini fece il vuoto fra la fanteria russa ma il carro travolse Huesch e i suoi uomini. Il caporale Angelo Gabrieli, battaglione sciatori “Monte Cervino”, sapeva bene che il pezzo controcarro in dotazione da 47 mm era efficace solo a distanza ravvicinata. Ferito da una mitragliata, Gabrieli rifiutò di allontanarsi dal pezzo e colpì un carro che stava puntando verso di lui. Per quanto danneggiato il T34 continuò ad avanzare. Gabrieli disse ai suoi di allontanarsi e che avrebbe fatto da solo. Ricaricò il cannoncino e aspettò a sparare per fracassare i cingoli. Dieci metri, sei, cinque, quattro: Gabrieli sparò quando mancava due metri soltanto, mettendolo fuori combattimento ma l’abbrivio del mezzo portò il blindato dentro la buca schiacciando artigliere e cannone.

A partire dal 4 gennaio fu gettato nella mischia anche il battaglione “Cividale” che, al grido “Fuarce Cividat!” respinse ogni attacco.

Il 13 gennaio i russi sferravano il colpo di grazia, facendo a pezzi la 2a armata ungherese, schierata a sinistra della “Tridentina”. Il corpo d’armata alpino restò isolato e i tedeschi non controllavano più la situazione. In questa fase l’indecisione di Gariboldi circa una ritirata ormai sicura fu ancora più incomprensibile, anche perché il 15 gennaio venti carri russi piombarono su Rossosch, praticamente indifesa: Rossosch, dove erano concentrate le salmerie e i rifornimenti di tutto il corpo d’armata, fu difesa eroicamente dal battaglione sciatori “Monte Cervino”, privo di pezzi anticarro ma sostenuti dagli Stuka tedeschi. I russi persero dodici carri e si ritirarono ma l’incursione fu micidiale. Il disordine regnò sovrano, nessuno sapeva cosa fare, men che meno ordinare un ripiegamento ormai improcrastinabile.

Il 16, tuttavia, iniziò il trasferimento nelle retrovie del materiale più ingombrante ma Adolf Hitler impose che gli alpini restassero sulle loro posizioni per permettere il salvataggio delle truppe tedesche. Nel frattempo i russi erano ritornati a Rossosch in forze e avevano annientato quanto restava del “Monte Cervino”. Di tutto il battaglione si salvarono solo cinque uomini che furono catturati dai partigiani. Tutte le salmerie concentrate nella città vennero distrutte e solo allora arrivò anche l’ordine di ripiegare, ma la sera stessa l’ordine venne annullato da Gariboldi. Poi, finalmente, il 17 gennaio, Gariboldi si decise a ordinare la ritirata disobbedendo al comando tedesco.

La divisione “Tridentina” era praticamente intatta e doveva fare il percorso più breve fino a Podgornoje, la prima tappa della marcia. Sulla sua scia c’era la divisione “Vicenza”, fanteria territoriale, di scarsa efficienza, mentre la “Julia” e la “Cuneense” erano molto più lontane: la prima era semidistrutta ma anche la seconda era molto provata e aveva perso molti uomini nelle azioni di retroguardia. La “Tridentina” del generale Reverberi diventò così la punta di lancia dell’intera operazione. Reverberi poteva contare su uno stato maggiore eccezionale e su un grande vicecomandante come il colonnello Signorini, ma il vero asso nella manica si rivelerà il tenente colonnello Felice Prat, in grado di leggere le mappe come nessuno. Migliaia di ungheresi si accodarono alla colonna ma erano quasi tutti disarmati e su di essi non si poteva fare alcun affidamento. Venne presa in considerazione la possibilità di arrendersi, tanto la situazione era disperata, ma il gigantesco Signorini era disposto ad andare avanti anche col solo suo reggimento mentre Reverberi, alto un metro e sessanta, un carattere così spumeggiante da essere soprannominato “generale gasousa”, affermò che la guerra, per lui, cominciava soltanto allora e che la “Tridentina” poteva superare ogni ostacolo. In un gruppo di uomini della “Tridentina” c’era don Carlo Gnocchi che disse ai suoi, in procinto di partire per una prova sovrumana: ”Ricordatevi che Dio è con gli alpini” e i suoi risposero: “Gli alpini sono degni di Dio”.

Alpini e fanti della “Vicenza” si riorganizzarono e si prepararono alla marcia che pensavano breve, di qualche decina di chilometri: non sapevano che l’anabasi degli alpini sarebbe durata tredici giorni, ma sapevano che le probabilità di scamparla erano comunque poche. Gli uomini si caricarono di viveri, di munizioni, ci si confessò e i feriti vennero lasciati nelle isbe coi medici scapoli. La ritirata iniziò il 19 ma i russi avevano steso una rete di capisaldi per sbarrare la ritirata.

Il battaglione “Verona” è in testa alla “Tridentina” e conquista Postojali il 20 gennaio, attirando su di sé forze sovietiche che non potranno impedire lo sfilamento della colonna principale. Nella battaglia si distingue il tenente Gino Ferroni, venticinque anni, veronese, assistente universitario di diritto civile a Ca’ Foscari, membro dell’Azione Cattolica, avversario del fascismo e antimilitarista. È il più spericolato degli ufficiali del “Verona”: attacca di corsa, sparando dall’anca col suo mitragliatore e sembra invulnerabile.

Già a Postojali tutto sembra perduto mentre anche il villaggio di Nowo Stefanovka sta per essere conquistato dai russi, ma gli alpini resistono fino all’arrivo dei blindati tedeschi. Tra gli artefici della vittoria il capitano Riccardo Fabiani, romano, che resta ferito all’addome. Impossibilitato a muoversi, viene soccorso da due alpini ma insiste per essere abbandonato: i suoi uomini gli disobbediscono, preferiscono morire con lui che lasciarlo al suo destino. Fabiani allora estrae la Beretta d’ordinanza e si spara un colpo in bocca.

Il 20 gennaio la “Julia” supera gli sbarramenti di Kopanki e Solowiev, mentre la “Cuneense”, più a sud, combatte disperatamente a Popovka e Postojalovka. Il colonnello Avenanti grida ai suoi “Così muore il comandante del Ceva!” e spara contro un blindato con la pistola, venendo immediatamente colpito a morte. Contro i carri si può solo cercare di saltare sullo scafo e lanciare bombe a mano all’interno, oppure, come il tenente Continenza, torcere il sistema di puntamento del carro con le nude mani. I russi massacrano gli alpini e stanno arrivando alle postazioni di artiglieria e dei mortai. La sorte della “Cuneense” sembra segnata quando accade uno di quegli strani prodigi che ricorrono nella storia militare. A un certo punto si sente un grido: “Dai che scappano, dai che scappano!” È il capitano Franco Magnani che grida e sa che non è vero, che i russi non stanno scappando, ma non importa. Tutti coloro che sono in grado di camminare escono dalle isbe o dai rifugi e raggiungono la linea del fuoco. “Tutti i vivi all’assalto!” è la parola d’ordine di quel giorno e di quelli successivi e i russi scappano per davvero, anch’essi provati dalla durezza dello scontro.

È la vittoria, ma a carissimo prezzo.

In quei giorni vi sono vicende incredibili di sofferenza e resistenza umana. Alcuni alpini vengono catturati in un’izba dai russi, spogliati e portati all’aperto per essere fucilati. Due di essi, i tenenti Carta e Marchiori, si danno alla fuga e scappano nella pianura a 30°C sotto zero, continuando a camminare fino all’alba e venendo salvati da una colonna tedesca. Il caporalmaggiore Arnaldo Molinari si accorge che le dita dei piedi sono andate in cancrena e, per salvarsi, si rifugia in una casa, estrae una lametta da barba e con quella si amputa tutte le dita fino a far sgorgare il sangue. Fatto prigioniero, riuscirà a tornare in Italia.

Il 21 gennaio la “Tridentina” sfonda un nuovo sbarramento a Kravzovka, sempre con l’appoggio delle artiglierie dei carri tedeschi, ma i resti della “Julia” vengono annientati a Novo Gierogevskij. Solo qualche centinaio di uomini riesce a sfuggire alla trappola e a raggiungere la Tridentina, come faranno, fra gli altri, il tenente Giuseppe Prisco e il tenente medico Giulio Bedeschi.

Ci sono gesti inauditi come quello del tenente colonnello Attilio Binda che, con quindici alpini, viene sorpreso e catturato dall’equipaggio di un carro armato. Binda avvisa i suoi uomini di osare il tutto per tutto quando si ucciderà. Forse i suoi uomini non capiscono cosa voglia dire ma, improvvisamente, l’ufficiale estrae la pistola, se la punta alla tempia e spara, lasciando i russi stupiti per qualche secondo. I quindici alpini non hanno bisogno d’altro per disarmare il nemico e riprendere il cammino verso l’Italia.

Il 22 gennaio la “Tridentina” arriva davanti a Sceljakino e i battaglioni “Val Chiese” e “Verona” superano le difese russe, sostenute egregiamente dai soliti quattro blindati tedeschi e dall’artiglieria alpina. La situazione appare incerta ma, facendosi largo fra la folla degli sbandati, ecco arrivare il battaglione “Edolo” che infligge il colpo di grazia alle difese russe. È una grande vittoria anche e soprattutto perché gli italiani si impadroniscono del rancio dei russi e possono mangiare.

La colonna, però, lascia il villaggio troppo presto e questo viene rioccupato dai russi. Così, quando la divisione “Vicenza” arriva a Sceljakino, trova il nemico a presidiare le izbe e subisce gravissime perdite. Pascolini non si dà per vinto e attacca con il battaglione “Pieve di Teco”, composto da montanari liguri, taciturni ed estremamente efficienti. Sceljakino è conquistata dagli italiani per la seconda volta ma la divisione “Vicenza” ha perduto quel po’ di valore bellico che aveva conservato fino ad allora. Quella notte, a Warwarovka, i carri russi annientano il battaglione “Morbegno”, ma il sacrificio del battaglione impedisce ai russi di cogliere alle spalle la “Tridentina”.

(1 – continua)

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