La fine della campagna d’Africa aveva fruttato agli Alleati il primo vero trionfo militare con la cattura di 250mila soldati dell’Asse. Tuttavia era apparso evidente che gli eserciti inglese e americano erano nettamente inferiori a quello tedesco e anche quello italiano, così malridotto, aveva dato parecchio filo da torcere. Non ci sarebbe stata nessuna vittoria angloamericana in Tunisia se gli Alleati non avessero goduto di una completa supremazia aeronavale. Eppure era necessario impegnare gli italo-tedeschi sul loro terreno e invadere l’Italia per aiutare concretamente l’Unione Sovietica, che da due anni combatteva contro tutta la Wehrmacht, ed evitare il rischio di una pace separata.
Gli americani erano contrari a un impegno in un teatro secondario e volevano concentrarsi sullo sbarco in Francia. L’invasione della Sicilia, proposta dagli inglesi, era l’opzione più saggia. L’Italia era sull’orlo del crollo e la sua uscita dal conflitto avrebbe comportato il trasferimento di un buon numero di divisioni tedesche in Grecia e nei Balcani, oltre che in Italia. I generali alleati, tuttavia, avevano un sacro terrore dell’esercito tedesco tanto che Eisenhower, il 7 aprile 1943, evidenziò le difficoltà di conquistare la Sicilia se vi fosse stata la presenza di due divisioni tedesche. Fu proprio questo timore che mandò Churchill su tutte le furie facendogli commentare: “Non potrei immaginare il pensiero di Stalin su tutto ciò, dal momento che egli ha 185 divisioni germaniche sul suo fronte”.
Posta la schiacciante superiorità aeronavale, andava verificato cosa poteva mettere in campo l’Italia. Nel giugno del 1943 il Regio Esercito poteva contare ancora su una massa di 20 divisioni di primo livello, ancorché inferiori a quelle avversarie, 28 divisioni di fanteria di livello mediocre e 33 di livello decisamente scarso. Eppure, anche in una situazione così disperata, con il territorio nazionale in procinto di essere invaso, le grandi unità, specialmente quelle più efficienti, si trovavano ancora disseminate per tutta Europa. A difendere l’Italia con una certa efficacia vi erano 2 divisioni corazzate, 4 autotrasportabili, una celere e 10 di linea: in tutto 17 divisioni, mentre fuori d’Italia ben 31 erano schierate in zona d’occupazione.
Inazione? Fatalismo? Cosa impediva a Mussolini e allo stato maggiore di richiamare le proprie truppe in Italia? Intanto le città siciliane, in vista dello sbarco, venivano massacrate dall’aviazione angloamericana. Le città più bombardate furono Catania, Palermo e Trapani (4 volte ciascuna) e Messina ben 10 volte. Anche Reggio Calabria fu colpita da ben 9 incursioni nel solo mese di giugno, ma la peggiore apocalisse toccò a Livorno, quando il 28 giugno le fortezze volanti americane fecero 252 morti in un giorno solo.
Di fronte a questa impotenza c’era chi continuava a lottare come gli Adra (Arditi distruttori della regia aeronautica). Era un reparto sceltissimo di appena 500 uomini che era stato impiegato come normale fanteria in Tunisia alla fine del 1942 e che venne scelto, nel giugno 1943, per un’impresa disperata: attaccare i campi d’aviazione alleati e distruggere quanti più bombardieri possibile. 140 uomini, divisi in 10 squadre, furono lanciati in Libia, in Tunisia e in Algeria. Il lancio fu errato. Quasi tutti gli Arditi finirono lontani dagli obiettivi e furono catturati o uccisi tranne un gruppo, lanciato lontano dall’aeroporto di Biskra in Algeria. Sfuggiti alla cattura, i 14 arditi marciarono per quattro giorni sulle montagne dell’Atlante distruggendo un ponte. Due superstiti, Vito Procida e Franco Cargnel, riuscirono a raggiungere Biskra e, da soli, collocarono 18 cariche esplosive sotto altrettanti quadrimotori americani venendo poi catturati.
L’impresa di Alessandretta
Ancora più rocambolesca l’impresa del tenente Luigi Ferraro della Decima Mas. Nel porto di Alessandretta, nella neutrale Turchia, venivano caricati su navi mercantili britanniche ingenti quantitativi di cromo, metallo essenziale per l’industria degli armamenti. Sotto le spoglie di un addetto al consolato di Alessandretta, Ferraro giunse sul posto con alcuni bauli contenenti non bagaglio personale ma cariche esplosive da porre sotto le navi da carico. Ferraro divenne assai popolare fra il personale dell’ambasciata: un atletico ragazzone, molto sportivo, con un fisico eccezionale, ma imboscato e raccomandato e con un sacro terrore dell’acqua. Nelle settimane successive Ferraro, dopo aver fatto bisboccia con gli amici, scendeva alla spiaggia in piena notte, coadiuvato dall’agente Giovanni Roccardi, con la scusa di prendere lezioni di nuoto lontano da sguardi indiscreti perché si vergognava della propria incapacità.
Il 29 giugno Ferraro, dopo aver nuotato di notte per 2.300 metri, piazzava una mina sotto la carena di un piroscafo greco. Allo scopo di far esplodere la nave in porto neutrale, la carica a bauletto era dotata di un’elica che agiva solo quando la nave prendeva la velocità di crociera. Dopo di che, quando la nave fu in acque internazionali, la carica esplose danneggiandola in modo irreparabile. L’equipaggio fu convinto che si trattasse di un siluramento. La stessa fine fecero altre tre navi. Quando un ordigno inesploso fu scoperto i sospetti su Ferraro si fecero sempre più forti e questi dovette rientrare in Italia dopo aver affondato, da solo, 24mila tonnellate di naviglio nemico e spedito in fondo al mare 12mila tonnellate di cromo.
La caduta di Pantelleria
A fronte di questi eroismi vi furono episodi imbarazzanti come quello della resa di Pantelleria. E non è il caso, in questa sede, di gettare la colpa sul solo ammiraglio Gino Pavesi, comandante delle difese dell’isola; l’imprevidenza e il lassismo furono costanti, così come l’ipocrisia di Benito Mussolini. Si pensi che, per le fortificazioni dell’isola, servivano 80mila tonnellate di cemento al mese: ebbene, fra il marzo e il giugno 1943 il quantitativo mensile fu di appena 7mila tonnellate, inferiore a quanto se ne produceva nella sola Sicilia.
L’acme della neghittosità fu raggiunta quando non vennero sfollati i 12mila abitanti dell’isola. Per resistere erano necessarie riserve idriche per gli 11mila uomini di guarnigione ma era chiaro che le riserve idriche sarebbero durate esattamente la metà se non fosse stata evacuata la popolazione. Pantelleria venne, comunque, rifornita, grazie agli eroici sforzi dell’aviazione da trasporto e questo nonostante fosse bombardata ogni giorno dal 18 maggio fino all’11 giugno. Nei primi dieci giorni di giugno 12 trimotori S81 e 34 Ju52 portarono rifornimenti di munizioni e di acqua. Il 7 di quel mese la nave cisterna Arno riuscì a rifornire l’isola di ben 130 tonnellate d’acqua. Lo stato delle difese era comunque buono, poiché l’80% delle batterie antinave era ancora efficiente mentre più della metà di quelle antiaeree erano state smantellate dai bombardamenti. L’ammiraglio Pavesi, il 10 giugno, dichiarò di avere acqua per soli quattro giorni ma, nello stesso giorno, comunicò di aver bisogno di munizioni. Alle 3:45 dell’11 giugno, del tutto inopinatamente, trasmise un telegramma in cui si segnalavano le condizioni della popolazione civile e concludeva: “Conscio responsabilità numerose vite umane sento triste dovere dichiarare che tutte le possibilità materiali resistenza sono esaurite”.
Sorpreso da questa resa repentina, Mussolini non reagì come avrebbe dovuto fare un capo delle forze armate, esautorando l’ammiraglio Pavesi e facendolo giudicare da una corte marziale ma, alle 10:10, trasmise un telegramma dove si suggeriva, implicitamente, di motivare la resa con la mancanza di acqua potabile. In altre parole, cercava di nascondere una resa vergognosa sotto il tappeto delle parole e non solo: Mussolini attribuiva all’ammiraglio Pavesi la Croce di Cavaliere, decorandolo sul campo per il valore dimostrato.
In realtà il telegramma fu trasmesso da Supermarina solo alle 12:55, quando Pavesi si era già arreso da quasi due ore, senza attendere il benestare del Duce. Alle 12:10, infatti, Pavesi aveva inviato un nuovo telegramma che vale la pena riportare per intero: “Presidio Pantelleria ha resistito per quanto umanamente possibile. Impossibilità qualunque reazione mi impone durissima necessità cessare resistenza. Alle ore 11:00 ho dato ordine esporre segnale di resa. Viva l’Italia (sic!). Dall’avamposto mediterraneo rivolgiamo nostro saluto alla cara Patria. Abbiamo compiuto massimo dovere nella certezza della vittoria finale. Avvisate famiglie che tutto personale stazioni r.t. Pantelleria est salvo. Viva l’Italia. Viva l’Italia. Viva l’Italia”.
Parole che suonavano atrocemente beffarde per gli aviatori e i marinai che continuavano a battersi contro la strapotenza anglo-americana. Ma non è tutto. L’ordine di distruggere l’hangar sotterraneo, risorsa bellica di primaria importanza, venne del tutto disatteso e Pantelleria venne consegnata al nemico senza che venisse opposta alcuna resistenza, nessun sabotaggio. Identica sorte toccò a Lampedusa. Gli effetti della caduta di Pantelleria sul morale della nazione furono devastanti e la concessione della più alta decorazione all’ammiraglio Pavesi apparve una beffa suprema per coloro che combattevano e un viatico alla resa per quanti ritenevano inutile ogni ulteriore resistenza.
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