Dopo la liberazione di Roma, l’avanzata alleata verso il Nord assunse un ritmo quasi travolgente, destinato a rallentare col passare del tempo per le efficaci azioni di retroguardia in cui l’esercito tedesco era maestro universalmente riconosciuto. A guidare l’inseguimento c’erano, sul versante tirrenico, i soldati nippoamericani del 442esimo Regimental Combat Team che sarebbe divenuta l’unità più decorata della storia dell’esercito americano e, su quello adriatico, il Corpo Italiano di Liberazione incorporato nel II corpo d’armata polacco. Eppure ciò che deve essere ricordato con maggior forza è il fatto che, nel solo mese di giugno 1944, 39 partigiani, uomini e donne, compirono atti di valore tali da meritare il conferimento della medaglia d’oro al valor militare.



È ben difficile che i lettori abbiano mai sentito parlare dei nomi, pochi, per motivi di spazio, che verranno fatti adesso. Pochi avranno sentito parlare del tenente colonnello Giuseppe Pietro La Marca che, il 4 giugno 1944, entrò nel centro radiotrasmissioni di Santarosa, minato dai tedeschi in fuga. L’impianto aveva un valore altissimo e doveva essere salvato. Ma ancor di più doveva essere salvata tutta la zona abitata circostante che sarebbe stata distrutta dalle esplosioni. Il colonnello La Marca riuscì a disinnescare le cariche esplosive in una corsa contro il tempo, compiendo un’impresa che noi, oggi, crediamo possibile solo dei film di Hollywood. Così recita la motivazione della decorazione: “Non nell’ardente atmosfera che trascina ed esalta trasse l’impeto per l’epica gesta, ma nell’oscuro dedalo delle gallerie, nei cunicoli colmi di esplosivo, a tu per tu con la morte in agguato”.



In Abruzzo, l’11 giugno, una banda armata comandata da Renato Berardinucci veniva catturata dai tedeschi e i superstiti portati al cimitero di Arischia. Berardinucci, insieme al compagno Vermondo Di Federico, decisero di non attendere passivamente la morte ma di combattere ancora, disarmati, per dare la possibilità agli altri due compagni di fuggire. Così Berardinucci e Di Federico si lanciarono contro il plotone d’esecuzione venendo uccisi e gli altri due compagni, Giuseppe Padovano e Umberto Collepalumbo, poterono scappare e sottrarsi all’esecuzione.

Anche la figura del veneto Bruno Brandellero è degna di un romanzo. Nato nel 1922 a Valli del Pasubio in provincia di Vicenza da una famiglia di agricoltori, era passato dal lavoro nei campi a quello di falegname. Negli anni della prima giovinezza aveva fatto parte dell’Azione cattolica nell’associazione Santa Maria Valli di Vicenza. Dotato di un fisico atletico, aveva praticato il pugilato e si era fatto un nome come boxeur a livello regionale. Arruolato in sanità, con l’armistizio era andato in montagna, s’inserì nella formazione partigiana “Martiri di Val Leogra” e divenne sottotenente per le proprie capacità militari. Il 16 giugno, vicino alla contrada Vallortigara, fu coinvolto in un rastrellamento dal quale riuscì a fuggire. I tedeschi avevano deciso di distruggere il villaggio e fucilare 17 ostaggi ma Brandellero, che aveva seguito l’evoluzione degli avvenimenti, uscì dal proprio riparo e si consegnò al nemico per evitare la rappresaglia che venne annullata. Dopo nove giorni di torture Brandellero venne fucilato a Marano Vicentino.



In quel giugno che faceva presagire la vittoria e la fine della guerra non furono solo gli uomini a sacrificarsi. Anna Maria Enriques Agnoletti era nata nel 1907 a Bologna. Il padre Paolo Enriques era ebreo e la madre Maria Clotilde Agnoletti cattolica. Entrambi i genitori, tuttavia, non erano praticanti e fecero crescere i propri figli in un ambiente laico e realmente libero, senza anticlericalismi. Paolo Enriques era docente universitario di biologia e la formazione culturale di Anna Maria e del fratello Enzo fu di altissimo livello. È di quel periodo un cammino di conversione che la portò a chiedere il battesimo nel 1938, poco prima dell’introduzione delle leggi razziali, che provocarono il suo licenziamento. Fu grazie all’interessamento di Giorgio La Pira che Anna Maria poté essere presentata a monsignor Giovanni Battista Montini che la assunse, in qualità di paleografa, presso la Biblioteca apostolica vaticana.

La partecipazione ad attività antifasciste iniziò allora e proseguì dopo il settembre 1943. Alla fine di quell’anno tornò a Firenze per aiutare il fratello Enzo, diventato una figura di spicco della Resistenza toscana. L’attività politica di Anna Maria divenne sempre più intensa e, con essa, anche quella di soccorso a ebrei e perseguitati, oltre che di collaborazione con le formazioni partigiane romane e toscane. Durante un interrogatorio di alcuni partigiani romani emerse il nome della Enriques come agente della Resistenza.

La polizia fascista inviò due agenti che si finsero ufficiali dell’esercito in cerca di rifugio: un vecchio trucco che funzionava sempre con coloro che erano più abituati a usare misericordia, e così fu anche per Anna Maria, la quale venne arrestata il 12 maggio 1944 a Firenze, in via Tripoli, insieme alla madre. Le prove della sua attività a favore di ebrei e partigiani, reperite durante la perquisizione, non le lasciarono scampo. Questa donna, abituata al lavoro di archivio in biblioteca, esperta di archivistica, in possesso di una cultura vasta e raffinata, venne portata in via Bolognese dove si trovava il reparto Servizi speciali, meglio noto come “Banda Carità”, specializzato nelle più efferate torture. Anna Maria fu pesantemente interrogata e torturata da queste belve. Il 12 giugno fu prelevata dal carcere e portata a Sesto Fiorentino con altri sei partigiani. Il camion si fermò nella frazione di Cercina sul greto del torrente Terzolle e qui i prigionieri furono fucilati.

Norma Parenti Pratelli nel 1944 aveva 23 anni e una storia completamente diversa da quella di Anna Maria Enriques Agnoletti, per quanto così simile negli esiti. Era nata in un podere vicino a Massa Marittima, in provincia di Grosseto, da famiglia operaia, muratore il padre, mentre la madre gestiva una trattoria. Le radici cattoliche si abbinarono alle idee socialiste di riscatto sociale. Il 31 marzo 1943 si sposò con Mario Pratelli che, nel settembre 1943, raggiunse la brigata partigiana “Garibaldi”. Il 29 dicembre nacque Alberto Mario, il primo figlio della coppia. Norma era davvero una ragazza fuori dal comune: religiosa ma di idee socialiste; moglie e madre devota, ma fiera e indipendente, da anticonformista qual era portava i pantaloni e fumava. Sensibile e attenta, collaborava attivamente con i partigiani della zona per far arrivare documenti e rifornimenti, aiutando disertori e perseguitati. Tutte queste attività esigevano la massima riservatezza ma, nella vita, esistono momenti in cui bisogna uscire allo scoperto e compromettersi.

L’8 giugno 1944 Guido Radi, un partigiano, era stato catturato dai tedeschi, seviziato e ucciso. Il cadavere era stato buttato come monito sulla scalinata del duomo di Massa, con il divieto di dargli sepoltura. Norma non si arrese e disobbedì agli ordini, organizzando un gruppo di donne che presero la salma e la portarono al cimitero, facendo in modo che i parenti di Radi potessero salutarlo per l’ultima volta. Seppellire i morti è un’opera di misericordia e Norma, emula di Antigone, non venne meno al proprio dovere.

Verso le dieci di sera del 23 giugno 1944 una pattuglia di tedeschi entrò nell’osteria di famiglia. Madre e figlia vennero prelevate, la trattoria venne fatta saltare in aria. La madre venne liberata poco dopo e vide la figlia allontanarsi, scortata dai nazisti verso la periferia della città. All’altezza del podere Moschini, Norma venne assassinata con una pugnalata al petto e una fucilata al ventre.

Anche Modesta Rossi era, innanzitutto, madre e lavoratrice. Nata a San Martino di Bucine (Arezzo) nel 1914 era madre di cinque figli e il marito, Dario Polletti, era partigiano nella banda Renzino. Il 29 giugno i tedeschi devastarono la zona di Arezzo imprigionando Modesta mentre si trovava in casa coi figli, il maggiore dei quali aveva solo sette anni. Alla richiesta di informazioni sui partigiani Modesta si rifiutò di rispondere. A quel punto i nazisti infierirono a coltellate su di lei e sul bambino di 13 mesi che teneva in braccio, massacrandoli entrambi.

Anna, Norma, Modesta: se questo articolo può servire a qualcosa, che sia per ricordarci sempre di cosa sono capaci le donne, di cosa è stato capace il popolo italiano. E non solo ogni 25 aprile per poi dimenticarsi di tutti a partire dal 2 maggio.

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