C’è un angolo della Torino ottocentesca, non lontano dalla chiesa della Consolata e dallo storico e ancor oggi affollato mercato di Porta Palazzo, che costituisce l’antefatto delle opere sociali frutto della santità caritatevole del XIX secolo: l’Opera del Rifugio, voluta dai marchesi di Barolo (e, in modo tutto speciale, dalla marchesa Giulia) nel 1823, di cui quest’anno cade il bicentenario della fondazione. Intorno al Rifugio hanno preso vita nei decenni successivi altre opere da tutti ben conosciute e, diciamo pure, anche più note del Rifugio baroliano.
A poca distanza, oltrepassata l’attuale via Cigna, si erge infatti la chiesa di Maria Ausiliatrice con l’annesso (e tuttora pienamente attivo) primo oratorio di don Bosco, Valdocco. Dalla parte opposta scorrono sotto gli occhi del visitatore i padiglioni dell’ospedale e delle opere benefiche fondate da san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Poco lontano, a meno di un chilometro di distanza si incontra un’altra opera che completa uno straordinario quadrilatero di santità: l’Istituto degli Artigianelli di san Leonardo Murialdo. Una specie di cittadella della carità nella quale si manifesta la santità dei loro promotori, di cui ancora oggi a distanza di oltre un secolo e mezzo si possono sperimentare i benefici e valorizzare gli insegnamenti anche al di fuori della cerchia subalpina.
L’Opera del Rifugio sorse come diretta conseguenza dell’interesse di Giulia per rimediare le drammatiche condizioni in cui versavano le carceri femminili torinesi del tempo. Allo scopo di migliorarle predispose, d’un lato, un progetto di riforma e, dall’altro, un piano di intervento per la riabilitazione delle carcerate una volta scontata la pena. Il Rifugio doveva infatti essere il luogo dove le ex carcerate potevano gradualmente inserirsi nuovamente nella vita normale e sfuggire al rischio di ricadere nell’errore, un luogo dove lavoro, istruzione, preghiera e partecipazione alla vita comune erano le componenti dell’opera rieducativa.
La biografia delle marchesa presenta un percorso graduale e via via sempre più coinvolgente nella vita delle carcerate. Dapprima Giulia sperimenta la semplice condivisione personale con la visita alle carcerate, poi si fa carico del loro recupero entro una prospettiva che non è solo assistenza occasionale. A tal fine mette a punto un piano d’intervento organico. D’intesa con le autorità preposte trova soluzioni meno degradanti di quelle che aveva incontrato nel suo primo impatto con il carcere e comincia a progettare la creazione di un luogo – sarà il Rifugio – ove perseguire, una volta scontata la pena, l’azione di pieno inserimento delle ex carcerate nella vita normale.
Oggi il Rifugio con la nuova denominazione di Distretto sociale Barolo – ammodernato e ristrutturato per iniziativa dell’Opera Barolo, erede testamentaria dei beni dei marchesi Carlo e Giulia – è sede di una molteplicità di iniziative accomunate dall’attenzione e dalla cura vero l’altro, in particolare le fasce più deboli ed esposte alla povertà. Il Distretto sociale Barolo occupa un territorio con 14 edifici di proprietà dell’Opera Barolo, messi a disposizione a favore di altrettante realtà ecclesiastiche e civili che grazie al lavoro di più di 100 operatori e 320 volontari garantiscono servizi fondamentali, diurni o residenziali, a circa 20mila persone ogni anno. Si prolunga così un impegno e un servizio che nel corso dei decenni non è mai venuto meno alle finalità individuate dai marchesi, pur con gli adattamenti e le integrazioni imposte dalle situazioni che via via hanno trasformato la realtà sociale subalpina.
Alla base della fondazione del Rifugio sta una convinzione che anima l’intera azione caritativa di Giulia: “Ardisco affermare – annota in una delle sue lettere – che prima di ogni cosa, nelle persone ‘cadute’ occorre guadagnarcene il cuore”. Giulia coglie perfettamente qual è la chiave che apre le coscienze e le orienta il bene: qualcuno che si faccia carico di noi e che, senza cercare tornaconti personali, operi per il nostro bene. Non bastano le buone parole dell’educatore: la conquista del cuore si compie mediante un piano di intervento bene organizzato incentrato sull’istruzione, sul lavoro manuale, sulle pratiche di pietà, sull’ascolto paziente e sulla persuasione.
Il Rifugio, in quanto luogo di ravvedimento e di miglioramento personale, funzionò come opportunità di riabilitazione, di protezione e non più di punizione. Dal disciplinamento legato alla punizione si passava al risveglio della coscienza personale, dal riscatto dal male al recupero di una fiducia in sé stesse. Fu esattamente questa la bussola pedagogica che orientò l’azione di Giulia.
Bella, colta, raffinata, apprezzata per la sua vivace intelligenza, avrebbe potuto vivere serenamente accanto al marito Carlo Tancredi senza farsi carico di troppe responsabilità, godere senza egoismi dei loro beni, compiere con serietà le pratiche cristiane e fare la dovuta elemosina ai poveri com’era consuetudine tra gli aristocratici del tempo. E invece Giulia e Carlo Tancredi ragionarono in un’ottica molto diversa.
Oggi diremmo, con un’espressione moderna, che furono dei “laici impegnati”. La loro religiosità fu testimonianza di una fede attiva: non chiusero gli occhi di fronte ai problemi della società torinese del tempo, operarono direttamente con i soldi propri, destinandoli non solo alla carità quotidiana, ma investendoli in opere durature con una mentalità senz’altro di tipo imprenditoriale.
Mentre Carlo Tancredi concentrò le proprie iniziative in specie sull’educazione dei bambini, dei ragazzi e degli apprendisti e operò come amministratore civico, Giulia si dedicò al mondo femminile. In quei primi decenni dell’Ottocento non erano molte le iniziative a favore delle donne e delle bambine. La scuola del popolo era riservata quasi esclusivamente ai maschi e le bambine crescevano analfabete accanto alla madre, imparando i semplici lavori domestici. L’idea stessa, più in generale, che ci fosse bisogno di una specifica attenzione alla condizione delle donne era piuttosto estranea alla mentalità corrente. Perché si cominci a pensare a migliorare la vita femminile occorrerà oltrepassare la metà del secolo.
Quando nel 1820, rispondendo a una richiesta del parroco, Giulia aprì a proprie spese una scuola per bambine in Borgo Dora, una delle zone più povere e degradate della capitale, l’iniziativa costituì perciò un’assoluta novità e parimenti di avanguardia era l’idea che per gestirla occorresse personale esperto, non le maestre semianalfabete che per pochi soldi accudivano alle bambine le cui madri lavoravano. A tal fine Giulia promosse l’arrivo delle suore di San Giuseppe a Torino che da questo momento diventarono strette e abituali collaboratrici della marchesa.
C’è uno stretto nesso tra l’avvio della scuola in Borgo Dora e l’esperienza che nel medesimo periodo la coinvolse profondamente e assorbì molte sue preoccupazioni, cioè la realtà del carcere. Il fil rouge che tiene insieme le due iniziative non è solo la convergente attenzione rivolta al mondo femminile, ma la scelta dell’educazione come strategia più efficace per disporre di una società migliore.
(1 – continua)
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