Nel progetto di recupero delle donne giudicate “perdute” mediante l’Opera del Rifugio si trova il nucleo fondante della pedagogia di Giulia di Barolo, confermato ed ampliato nel tempo con altre iniziative. Nel 1832 apre il Rifugino per ragazze in età inferiore ai 15 anni; l’anno successivo un piccolo gruppo di postulanti ex carcerate già ospiti del Rifugio chiede di poter vivere una vita di preghiera e di penitenza. La creazione della congregazione delle Sorelle Penitenti di S. Maria Maddalena assunse piena fisionomia nel 1834, quando le prime novizie vestirono l’abito religioso e fu definitivamente approvata dalle autorità ecclesiastiche il 21 gennaio 1840.



La spiritualità offerta a chi entrava a far parte della giovane congregazione era centrata sul sentimento della misericordia: il discorso sul peccato è sempre associato alla gioia del perdono e alla misericordia divina. La figura di Maria di Magdala è proposta come esempio dell’amore penitente, riconoscente, contemplante.



Seguiranno ancora altre opere: nel 1841 fu aperto il Ritiro delle fanciulle traviate o Rifugino o anche delle Maddalenine; nel 1845 venne inaugurato l’ospedaletto infantile di S. Filomena; l’anno successivo fu la volta dell’orfanotrofio delle Giuliette e presero definitiva fisionomia le Famiglie operaie; nel 1848 cominciò a funzionare il Collegio Barolo e infine nel 1857 le opere volute dalla marchesa intorno al Rifugio si arricchirono del Laboratorio di San Giuseppe, destinato ad insegnare alle giovani povere filatura e cucito.

È tuttavia la creazione dell’Istituto delle Sorelle Penitenti a costituire la base per comprendere il disegno educativo di Giulia. Quelle che erano donne apparentemente perdute riscattano sé stesse fino a diventare testimoni del bene. Non a caso, proprio alle Maddalene la marchesa riserverà le sue cure più attente e appassionate.



L’itinerario pedagogico-religioso disegnato dalla marchesa si può così sintetizzare: il male parte sempre in vantaggio grazie all’antica confidenza con la fragilità del bene. In quanto lucido conoscitore degli uomini esso fonda infatti il suo regno sulla capacità di coltivarne le debolezze. Ma il Regno delle tenebre non è destinato a prevalere sulla Luce e l’uomo salvato da Gesù Cristo dispone della capacità di vincere il male. Ma tale capacità va mobilitata ed esercitata.

Perché questo accada occorre che ci sia qualcuno che parli al cuore, qualcuno che testimoni questa possibilità e aiuti a scoprirla. Qualcuno che si occupi di noi in maniera totalmente gratuita, che non è condizionato dallo stato d’animo, né dall’amabilità della persona alla quale si rivolge, e tanto meno dal riscontro che ne può scaturire: l’unica ragione che fa scattare questo amore è il bisogno della persona che sta davanti, la si ama perché ha bisogno di essere amata.

La carità si fa allora davvero educatrice e “l’uomo vecchio che si corrompe dietro le passioni ingannatrici” lascia al posto all’“uomo nuovo, come scrive San Paolo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera”. Lo scenario disegnato da Giulia percorre esattamente questo itinerario animata da un’idea educativa che non è solo tecnica comunicativa, organizzazione di ambienti e metodi collaudati, ma è soprattutto relazione interpersonale fatta di donazione sostenuta da una spiritualità che nella prospettiva misericordiosa opera con comprensione e fermezza.

La laboriosità di Giulia documenta come la carità educatrice – oltre a quanto abbiamo appena detto – agisce anche in un’altra direzione, più laica ma non meno incisiva e cioè nel senso di una carità soccorrevole e abilitante: soccorrevole perché risponde ai bisogni reali delle persone più povere, ma anche abilitante perché non si limita ad assistere, ma si propone di fornire i mezzi per assicurare la propria sussistenza, individuati nell’istruzione, nella padronanza di un mestiere, nella promozione di una mentalità operativa e non parassitaria.

Giulia non è sola, ma è parte di una tradizione ispirata dalle grandi figure religiose che accompagnano la storia della Chiesa torinese tra Sette e primo Ottocento (Francesco di Sales, Sebastiano Valfré, Brunone Lanteri, la comunità dei gesuiti della chiesa dei santi Martiri, sant’Alfonso de’ Liguori, Giuseppe Cafasso). La nobildonna ne è espressione, testimone e interprete. Di questa tradizione faranno parte, di lì a poco, altre personalità ugualmente impegnate sul fronte della lotta contro l’ignoranza, la marginalità, l’abbandono, la malattia e favore della prevenzione, dell’avviamento al lavoro, della promozione della dignità della donna, segno di una carità attiva che si manifesta soprattutto nel campo dell’educazione.

Oggi la Chiesa italiana richiama la comunità cristiana a ritessere il filo dell’educazione. L’espressione “emergenza educativa” è entrata nel linguaggio corrente accanto all’idea che dobbiamo accettare la “sfida educativa” del nostro tempo. Questa sfida secondo molti riguarda un’idea riduttiva di educazione e cioè semplificata a un insieme di tecniche e di vere e proprie procedure volte all’acquisizione di nozioni, competenze, abilità al punto che molti ormai preferiscono impiegare l’espressione “formazione” al posto di educazione proprio per marcare la differenza.

Giulia e Carlo Tancredi ci suggeriscono che la tradizione cristiana insegna con i fatti che l’educazione non può ridursi a un insieme di tecniche per quanto utili e importanti, ma non decisive. Essa è un processo umano globale e primordiale nel quale entrano in gioco e sono determinanti le strutture portanti dell’esistenza umana: la relazionalità e il bisogno di amore, la capacità di conoscere mediante il discernimento, l’esercizio della libertà in stretto rapporto con l’autorevolezza e la credibilità di quanti hanno il compito di educare.

Il vero educatore non dice “fai così”, ma “fai con me”. Se si considera la vita di Giulia da questa prospettiva, tutta la sua esistenza si configura come una grande impresa educativa ispirata alla convinzione che senza educazione – senza una “buona educazione” – non ci può essere felicità personale.

(2 – fine)

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