25 ottobre 732. A Poitiers, nella Francia centro-settentrionale, un esercito franco sconfigge un contingente arabo-berbero. È il punto più settentrionale toccato dalla grande epopea della conquista islamica che in poco più di un secolo si era estesa dalla penisola arabica alla Palestina, sconfiggendo l’esercito bizantino a Yarmouk nel 636, rovesciando l’impero sassanide persiano e conquistando tutto il Nord Africa per poi proseguire nella penisola iberica dal 711 al 721.
Resta famoso il commento dello storico illuminista Edward Gibbon, che scriveva: “Una vittoriosa linea di marcia era stata tracciata per mille miglia dalla rocca di Gibilterra alle rive della Loira. Raddoppiare tale spazio avrebbe portato ai confini della Polonia o alle highlands scozzesi. D’altronde il Reno non è meno superabile del Nilo o dell’Eufrate e la flotta araba avrebbe potuto giungere senza contrasti alle foci del Tamigi. Forse l’interpretazione del Corano ora sarebbe insegnata nelle aule di Oxford e i suoi sapienti dimostrerebbero a un popolo di circoncisi la santità e verità del profeta Maometto”.
Il punto tristemente ironico del nostro tempo è questo: che fino all’11 settembre 2001 ben pochi ricordavano Poitiers e, dopo di allora, per almeno vent’anni, quella battaglia, insieme a quelle di Lepanto e Vienna, sarebbe stata citata ad ogni piè sospinto in funzione anti-islamica. Oggi però, con una guerra in corso in Europa, Poitiers è nuovamente caduta nel dimenticatoio e lì rimarrà ancora fino alla rinascita di un eventuale terrorismo islamista che, negli anni passati, ha fatto centinaia di vittime in Europa.
Perché ironico? Perché il pubblico non riesce e non vuole ragionare su certe tematiche, prendendo posizioni estremizzanti come “Carlo Martello ha salvato l’occidente europeo” oppure “Carlo Martello non ha salvato un bel niente e ha solo sconfitto una scorreria insignificante”. Il problema è che, in un certo senso, entrambe le affermazioni contengono elementi di verità. E se è così, detto francamente, a noi oggi che ci frega di Carlo Martello e dei suoi guerrieri quando il tema del giorno è l’uso di ordigni nucleari tattici sulle nostre zucche?
Eppure la storiografia medievale per la prima volta parla di “europeenses” e la storia di questa campagna fa intravedere di cosa sia fatto il nostro continente, o meglio, l’appendice di quell’Eurasia che oggi viene contrapposta ai cosiddetti “atlantisti”.
È necessario, come sempre per comprendere cosa pensassero gli uomini di allora, fare un passo indietro di vent’anni e tornare al 711, quando una banda di guerrieri berberi, capitanati da Tariq, un berbero convertito all’islam, affrontò l’esercito visigoto sul Guadalete, nel sud della Spagna. Si trattava di una grossa scorreria, niente di più, niente di meno. Perché quello che spesso non si comprende è che, nelle guerre dell’islam, la scorreria non era semplicemente una ruberia, ma un modo per a) arricchire chi vi partecipava e b) indebolire economicamente e demograficamente gli avversari che, logorati, sarebbero poi caduti sotto il dominio arabo musulmano.
Ogni scorreria aveva quindi un’importanza strategica che andava al di là della sua effettiva ampiezza. A meno che, come nel caso dei berberi di Tariq, la battaglia portasse a sviluppi imprevedibili. Il re visigoto Roderico fu tradito dai suoi nobili che abbandonarono il campo di battaglia e venne massacrato insieme alla sua guardia personale dai berberi. Ne seguì il crollo del regno visigoto e l’occupazione di tutta la penisola iberica da parte dei musulmani nel giro di dieci anni. E non solo: arabi e berberi presero anche Narbona nel 720 e attaccarono anche Tolosa l’anno successivo, venendo però sconfitti da Eudes di Aquitania. Non male, si potrebbe dire, per una modesta incursione.
Ora, è chiaro che non si può prendere ciò che dice Gibbon per oro colato, dati i suoi pregiudizi illuministi e la vetustà del suo pensiero. Tuttavia, se guardiamo l’espansione musulmana nel Mediterraneo (cosa che gli storici “riduzionisti” raramente fanno), si rimane impressionati dal ritmo delle conquiste arabe. Nel 724 le flotte arabe predavano Sardegna, Corsica e Baleari; nel 725 le ultime guarnigioni visigote venivano cacciate da Carcassonne e da Nimes e Autun veniva saccheggiata.
In questo frattempo cosa faceva Carlo Martello, “maggiordomo” (oggi si direbbe primo ministro) di re Teodorico IV? I Franchi erano in tutt’altre faccende affaccendati, come pestare per bene i regni cristiani confinanti. Carlo Martello era, in effetti, un notevole capo di guerra e sconfisse ripetutamente neustriani (ossia i francesi del nord-ovest) e aquitani, poi sassoni, frisi e bavari. Il tutto con uno strumento militare assolutamente rispettabile, formato da una leva di uomini atti alle armi e da un numeroso contingente di guardie personali (scarae) che, presumibilmente, si spostavano a cavallo e combattevano a piedi, proprio come faceva la fanteria montata romana dei comitati. È forse proprio in questi guerrieri scelti che può essere individuato l’anello di congiunzione tra la cavalleria tardo imperiale romana e i paladini di Carlo Magno. In ogni caso Carlo Martello aveva praticamente ignorato l’avanzata musulmana da sud, troppo impegnato a combattere con nemici interni ed esterni.
Nel 732 il quadro strategico cambiò radicalmente. Il governatore arabo Abd al Rahman al Ghafiqi radunò un grande esercito (grande per qui tempi, beninteso) di circa 15mila uomini, che partì da Pamplona e valicò i Pirenei puntando su Bayonne. Nel contempo una forza secondaria entrava in Borgogna per attaccare Macon e Autun, mentre una flotta di supporto trasportava materiali da assedio. Si può definire una offensiva di tale portata una “scorreria”? Forse sì, ma solo nel senso che non presupponeva una occupazione permanente. Se, invece, la si intende come il mezzo per indebolire i regni cristiani del nord per un loro futuro assoggettamento, allora si può parlare di una grande offensiva, che vide decine di città saccheggiate. Bordeaux cadde in mano araba e il principe Eudes fu ripetutamente sconfitto nell’estate. In settembre i musulmani puntarono a nord verso l’abbazia di Saint Hilaire e poi ancora più su verso Tours sulla Loira e la chiesa di san Martino. Qui furono finalmente intercettati dall’esercito franco, al quale si erano aggiunti anche i resti della cavalleria aquitana guidata da Eudes. È forse questo il fatto più significativo: che due eterni nemici abbiano potuto mettere da parte un odio antico e radicato per far fronte a un nemico comune.
Di fronte a quell’esercito, numeroso e disciplinato, al Ghafiqi pensò bene di iniziare a ritirarsi, ma la strada per ritornare oltre i Pirenei era molto lunga e il suo esercito era rallentato dal bottino e dai prigionieri. Carlo, da parte sua, non si arrischiava ad attaccare: era ormai la metà di ottobre e l’autunno sarebbe stato molto più logorante per gli arabi e i berberi che per i franchi e gli aquitani.
A Poitiers al Ghafiqi ordinò di fermarsi. Era necessario sbarazzarsi degli inseguitori per poter tornare a sud in piena tranquillità e pose il suo esercito pronto per il combattimento, sfidando i franchi ad attaccare per primi, cosa che Carlo si guardò bene dal fare. Per una settimana i due eserciti stettero accampati uno davanti all’altro, poi i musulmani attaccarono. Era il 25 ottobre e il tempo giocava a favore di Carlo. I berberi, provvisti di numerose cavalcature, iniziarono il combattimento caricando selvaggiamente la fanteria franca. Questa accolse l’assalto “come un muro di ghiaccio”, come ebbe a scrivere il cosiddetto “Anonimo di Cordoba”. Carlo aveva sistemato le sue guardie tra la fanteria di minor valore per dare sostegno.
Le lance fermarono l’urto arabo, poi fu la mischia nella quale i possenti uomini del nord (ma non erano più nerboruti dei visigoti e dei bizantini) lottarono con una furia barbarica eguale a quella dei propri avversari. La francisca, la temuta ascia da battaglia franca, dovette farla da padrona, lanciata sui cavalieri armati alla leggera, mentre le lance trafiggevano i cavalli e i berberi venivano trascinati giù dall’arcione per essere finiti a colpi d’ascia.
Le versioni a questo punto divergono. Secondo alcuni, la battaglia continuò anche il giorno successivo ma, secondo altri, il momento decisivo avvenne proprio alla fine del primo giorno, quando il duca Eudes dimostrò tutta la sua lealtà di combattente e uscì alla carica dal bosco dove si era celato per tutto il tempo. La difesa statica della fanteria germanica aveva logorato gli assalti arabi, ma Al Ghafiqi era riuscito a incunearsi nel centro dello schieramento franco quando la cavalleria aquitana travolse ogni resistenza e si catapultò verso l’accampamento nemico e verso quelle ricchezze così gelosamente difese.
Per i berberi fu un colpo decisivo al morale. Al Ghafiqi comandò di tornare all’accampamento e nella lotta per difenderlo fu egli stesso ad essere trafitto dalla lancia di un fante austrasiano. Quando sorse l’alba, i franchi non trovarono più il nemico, fuggito durante la notte. L’accampamento, con il bottino, era rimasto sul posto e Carlo poté dirsi più che soddisfatto dell’esito di una lotta tutt’altro che scontata.
Se Eudes avesse tradito e se avesse anteposto la propria inimicizia verso Carlo alla propria lealtà, la storia europea sarebbe stata diversa. All’epoca Pipino il Breve, figlio di Carlo, aveva appena diciotto anni. Se i franchi avessero perso qualche altra battaglia, forse lo stesso regno non sarebbe più esistito e Carlo Magno sarebbe stato un principe esule e spodestato.
È un fatto, invece che, proprio da quel momento Carlo Martello opera una “reconquête” (per dirla alla francese), riprendendo Arles, Narbona, il sud della Francia e la Septimania. Ma il punto più significativo è un altro: che il monaco Isidoro scrisse che “gli europeenses entrarono nell’accampamento arabo ignorando che era stato abbandonato”. Gli europei: un termine per indicare quel guazzabuglio di popoli romano-barbarici sempre in lotta tra loro: austrasiani, neustriani, visigoti, alamanni, sassoni che si trovavano a nord dei Pirenei, genericamente a occidente. Quelli che una definizione oggi in vigore indicherebbe per “atlantisti” e che raramente e con fatica fanno fronte comune a una minaccia esterna.
I nomi mitologici di Poitiers, Lepanto e Vienna suggeriscono allora una costante degli europeenses: una inguaribile (benedetta e maledetta) alterità fra i diversi popoli europei e la loro capacità di unirsi (provvisoriamente) in nome di una identità comune e di un interesse superiore. La sfida all’Europa è stata già lanciata in più occasioni nel corso del XXI secolo: la risposta è insita nella nostra storia.
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