In questi giorni di circa un secolo addietro andava delineandosi la frattura che avrebbe avuto così peso nella storia del Novecento italiano appena nel gennaio successivo. 

In vista del congresso del Partito socialista italiano, che si sarebbe svolto a Livorno, la frazione comunista stava cercando di far passare la mozione per l’espulsione delle correnti riformiste. Il diktat era arrivato dal Partito comunista dell’Unione Sovietica, ma in realtà era condiviso da molti iscritti italiani. Quella diatriba congressuale stava avendo echi simili in tutti i partiti marxisti europei e si inseriva nel fallimento dello Stato liberale giurisdizionalista: le codificazioni, le istituzioni e i ceti che avevano garantito e perorato l’unificazione erano poi rimasti enormemente spogli sul fronte della legislazione sociale, nonché su quello dei nuovi bisogni di partecipazione politica che le masse iniziavano a premere sulle vene della storia.



A dispetto di quel che si dice, non ci fu in Italia un conflitto di mezzi (parlamentari contro antiparlamentari, massimalisti contro rivoluzionari), ma di fini e di contesti. I socialisti credevano di poter rappresentare le classi operaie, il disagio urbano e il lavoro agricolo nella cornice elettiva dello Statuto liberale, nel quale si erano rafforzati molto, pur riuscendo a scalfire poco le rendite diffuse. I comunisti avevano da tempo escluso ogni possibilità di cooperazione e collaborazione con le ali riformiste, liberali sociali e conservatrici.



Né socialisti né comunisti rinunciarono programmaticamente, peraltro, all’idea della rivoluzione socialista; né gli uni né gli altri rinunciarono all’elettorato attivo e passivo. È falso e tendenzioso ritenere che quella scissione riguardasse (come troppo spesso oggi si dice) la differenza tra i riformisti e i massimalisti, la scelta del voto o la scelta delle armi, la strategia della rivoluzione o quella della restaurazione. Il campo di gioco investiva direttamente la piattaforma istituzionale dello Stato. I riformisti, ancora, non erano maggioritari nelle federazioni socialiste e, in parlamento e nei vari istituti e gruppi locali, erano addirittura sovra-rappresentati rispetto alle altre correnti. Lasciarli nel partito significava in definitiva accettare la parabola unitaria della sinistra sociale, indivisa dalla seconda metà del XIX secolo a quel momento; espellerli significava togliere ogni dubbio sull’incompatibilità tra le procedure elettive dello Statuto Albertino e l’ortodossia marxista-leninista. 



Quel congresso, che i comunisti avevano preparato in una riunione imolese in cui ebbe avvio la mozione antiriformista (mozione di Imola), nell’interpretazione storico-politica è stato troppo spesso trattato come la conferma del dopo; come se ogni volta servisse a legittimare il presente. Si sono disegnati competitori di carta: il Turati riformista e il Gramsci comunista pessimista e chiuso alle stimolazioni sociali. Senza nulla togliere all’apporto enorme dell’uno e dell’altro, la prosa turatiana, anche quando verga memorabili battaglie civili, è ancora quella di un intellettuale rivoluzionario ottocentesco. È Gramsci a presentire, pur confinato in cella, l’ebollizione esplosiva di alcune contraddizioni dei decenni a venire (quelle, per capirci, che salderanno nel consenso al fascismo massimalisti esagitati, categorie monarchico-conservatrici, apparati pubblici e prima grande industria nazionale). 

E lo scontro prefabbricato è andato avanti producendo dualismi inavveduti per decenni. Si sente ad esempio parlare dell’ateismo dogmatico del filosovietico Togliatti opposto al duttile pluralismo ideologico del riformista Nenni, ma anche lì quante semplificazioni! Senza la deputazione comunista, non si sarebbe mai riusciti ad approvare l’articolo 7 della Costituzione che manteneva in vita i Patti del Laterano e Togliatti stesso fu il primo a parlare, più o meno esplicitamente, della necessità di creare un partito comunista per l’Italia, e non già a pedissequo calco dell’Internazionale. Nenni, la cui statura è confermata dall’amplissima produzione scritta e convegnistica, per quanto cogliesse il divenire redistributivo della politica economica a beneficio dell’industria e dei consumi, sul piano internazionale fu a lungo fedele alla parte Est del mondo di Yalta. 

E che dire poi dell’eterna querelle tra il godereccio Stato sociale craxiano e l’immusonita e tardiva difesa operaia e morale dell’ultimo Berlinguer? Due letture a una dimensione, che tolgono a Craxi il coraggioso tentativo di diversificazione delle alleanze italiane internazionali e a Berlinguer le aperture a forze di sinistra indipendente estranee alla tradizionale rappresentanza ufficiale del movimento proletario italiano. 

Insomma, il congresso di Livorno fotografò una scissione epocale, che certo ebbe dimensione quasi antropologica per chi la visse, partecipò e attuò. E però quanta ipocrisia a pensar che ogni male a sinistra sia venuto da là: quella scissione rappresentava il conflitto del suo tempo, non l’alibi del suo futuro.