Hedviga Cintulová (questo il cognome da nubile) nasce a Borský Mikuláš il 25 novembre 1904, insieme alla sorella gemella Jozefina. Il padre, Anton, fa la spola tra il Canada, dove lavora in miniera guadagnando abbastanza da garantire alla famiglia una sussistenza tranquilla, e la natia Slovacchia. Al compimento dei diciassette anni, anche Hedviga passa diversi mesi in Canada a lavorare come domestica. Tornata a casa, la ragazza si adopera per aiutare nel lavoro nei campi e con il bestiame, e si innamora di Jozef Rozbora, un umile calzolaio. Nonostante il parere contrario della famiglia di Hedviga (che alla fine ottiene anche la riconciliazione), il 24 novembre 1924 i due giovani si sposano. Avranno tre figli: Jozef (1925), Viktor (1927) e Hedviga (1940). La giovane madre è una lettrice entusiasta del periodico Slovenské Kvety (“Fiori Slovacchi”), cui contribuisce anche con un paio di articoli. Hedviga è una giovane donna molto attiva, sempre indaffarata e pronta ad aiutare gli altri: come quando la si nota alla guida del trattore con il rimorchio carico di pellegrini diretti al Santuario della Vergine Addolorata a Šaštín. La giovane è anche un’appassionata lettrice, e fa costruire una libreria nella propria casa: tanti dei suoi libri sarebbero stati prestati ad amici e conoscenti.



Nel febbraio del 1948 il Partito Comunista Cecoslovacco consolida il proprio potere con un colpo di Stato. Uno degli obiettivi principali del regime è la persecuzione dei cristiani, in particolare cattolici (il Vaticano era considerato uno stato nemico, alleato degli USA). Uno degli strumenti con cui, subdolamente, il regime tenta di soggiogare i credenti cattolici è la cosiddetta Katolícka Akcia o KA (Azione Cattolica, nulla a che vedere con l’associazione creata in Italia nel 1867). I comunisti pensavano di creare una “Chiesa di Stato” come quella ortodossa in URSS. I vescovi, però, respingono la KA e preparano una lettera pastorale da leggere nelle parrocchie al più presto. Il regime, venuto a sapere dell’esistenza della lettera, intitolata Messaggio dei Vescovi e degli Ordinari ai fedeli nell’ora della grande prova, ne vieta la diffusione minacciando conseguenze per i sacerdoti che dovessero trasgredire. Ciononostante, nelle due domeniche successive (19 e 26 giugno) la lettera sarà letta nei due terzi delle parrocchie: tra esse anche quella di Hedviga Rozborová e della sua famiglia. Il 20 giugno arriva la posizione ufficiale della Santa Sede: la KA viene definita scismatica e aderirvi significherà scomunica.



Il regime si muove quindi contro i sacerdoti che hanno trasgredito al divieto di diffusione, e i fedeli intervengono a difesa dei propri parroci. La polizia sceglie la violenza e uccide almeno una persona, ferendone gravemente diverse altre. Il 3 luglio 1949 è un giorno di grande festa nel villaggio di Hedviga Rozborová: un giovane sacerdote celebra la sua prima Santa Messa. Agli apparatčik del posto però viene l’idea di far intervenire un rappresentante del regime per una lezione pubblica sui “rapporti tra Stato e Chiesa”. Al capannello di persone presenti sale presto l’irritazione: con quale autorità questo servo del regime può dire loro cosa sia giusto e cosa no, nel modo in cui esprimono la loro fede? La tensione aumenta e il relatore fugge dal villaggio.



Cinque giorni dopo un gruppo di agenti si reca a Borský Mikuláš per indagare. La popolazione, saputo dei disordini cui abbiamo accennato, teme che gli agenti siano venuti ad arrestare il parroco, per aver letto la lettera pastorale proibita. Le campane e le sirene dei pompieri chiamano a raccolta i cittadini e intorno alle 16 ci sono circa 1.200 persone in piazza. Un’ora dopo, la polizia dà inizio alle violenze: uomini, donne (anche una incinta), bambini e anziani vengono picchiati senza pietà. La folla è dispersa e gli agenti procedono a “indagare”, non risparmiando violenze nei confronti delle decine di persone arrestate nelle settimane successive. Tra di loro c’è anche Hedviga Rozborová.

Hedviga era arrivata in piazza intorno alle 10, allertata dalla voce che si era sparsa secondo cui gli agenti erano venuti per arrestare il parroco. Rivolgendosi a uno degli agenti, la donna avrebbe chiesto: “Cosa siete venuti a fare? I nostri sacerdoti non ve li faremo prendere, anche a costo delle nostre vite”. Nel pomeriggio Hedviga, tornata a casa per non lasciare troppo da sola la figlia, avrebbe assistito a una scena raccapricciante: un gruppo di agenti che picchiava un ragazzino di quattordici anni. Hedviga sarebbe quindi uscita, gridando a sua volta verso gli agenti, dandogli degli “asini” in quanto “il ragazzo non è nemmeno un abitante del villaggio”. Hedviga torna a casa, dove mezz’ora dopo è scossa da alcuni violenti colpi alla porta: gli agenti fanno irruzione e la donna, picchiata brutalmente, protesta gridando “Assassini! Perché picchiate una donna indifesa?”. Il destino di Hedviga, che verrà accusata di essere la principale istigatrice di una rivolta inesistente, è segnato da una telefonata fatta dal negozio di famiglia a un conoscente di un villaggio vicino. La donna chiede aiuto, ma all’altro capo del telefono il signor Karol Trup preferisce contattare le autorità. Hedviga è arrestata per la “rivolta” e portata in prigione nella vicina Senica il 23 settembre 1949.

Hedviga si dichiara innocente e con l’avvocato difensore tenta la carta dell’infermità mentale, ma per una serie di circostanze le udienze vengono continuamente rimandate e la decisione per la perizia arriva solo nella prima settimana di novembre. La donna avrebbe dovuto essere trasferita a Bratislava l’8 novembre, ma non si muove da Senica fino al 7 dicembre. In quello stesso giorno Hedviga spedisce alla famiglia il suo ultimo scritto ufficiale: una lettera con poche e fredde istruzioni sulle regole per poter ricevere la corrispondenza. Non è la solita grafia ordinata e armoniosa e si capisce anche da questo che Hedviga non sta bene. Durante la sua permanenza all’Ospedale Statale di Bratislava sappiamo con certezza che alla famiglia è consentita almeno una visita clandestina, probabilmente con la complicità delle suore che lavoravano nella struttura sanitaria, che probabilmente riferivano anche sulle condizioni della donna mentre le autorità tacevano. Si sa che Hedviga ha perso conoscenza il 23 dicembre, e che un giorno ha chiamato vicino a sé una decina di persone, chiedendo loro di pregare per la Madre del Perpetuo Soccorso, cui era particolarmente devota, sentendo la morte imminente.

Vengono i brividi, oggi, a leggere i documenti ufficiali conservati negli archivi slovacchi. Come il dattiloscritto del 5 e 6 gennaio 1950 che registra la richiesta, respinta, di Jozef Rozbora di poter visitare la moglie che sa gravemente malata. Il motivo del diniego: il primario smentisce le condizioni gravi. Subito sotto c’è la nota del giorno dopo: un’altra richiesta, questa volta approvata, ma la nota aggiunge come poche ore dopo la sorella di Hedviga sarebbe tornata nell’ufficio per restituire il documento dato che “non è più necessario, in quanto [Hedviga] è morta questa mattina alle 9:15”. Nel rapporto del medico legale la causa della morte è “otite media”, ma leggendo nel dettaglio emerge un quadro clinico estremamente compromesso per cui è davvero difficile comprendere come il medico il giorno prima possa aver escluso categoricamente la gravità della situazione, togliendo così a una moglie, madre e sorella la possibilità di incontrare i propri cari un’ultima volta.

Il pomeriggio dell’8 gennaio il villaggio di Borský Mikuláš accompagna Hedviga Rozborová nel suo ultimo viaggio. Tre sacerdoti guidano il corteo funebre. La donna, tra le altre cose, non avrebbe gioito della consacrazione sacerdotale del figlio Jozef. Il villaggio natio non l’avrebbe mai dimenticata e si sarebbe sempre battuto per onorarne la memoria. La riabilitazione sarebbe arrivata solo il 2 aprile 1991, dopo due domande respinte nel 1968 e ancora nel 1990.

Perché è importante ricordare oggi la figura di questa donna, vittima innocente di un regime criminale e disumano che l’ha picchiata brutalmente per aver cercato di difendere un ragazzino indifeso e manifestato apertamente la propria fede? Il 17 novembre dello scorso anno, nell’anniversario della Rivoluzione di velluto, la figlia Hedviga Velická ne ha raccontato la storia in pubblico durante la commemorazione ufficiale delle vittime del comunismo. La commozione era palpabile e la stessa presidentessa Zuzana Čaputová non è riuscita a trattenere le lacrime.

Il ricordo di tanta sofferenza serve a tenere alta l’attenzione di tutti, perché è facile dare per scontata la libertà di cui oggi godiamo. Il male comunista ha ucciso Hedviga Rozborová e tanti altri innocenti, ma non ha mai vinto. Il sacrificio di questa donna coraggiosa, con quello di tanti altri eroi silenziosi, ci ricorda quanto sia importante difendere la libertà e i valori su cui si fonda la nostra cultura. Perché non ci sia spazio, mai più, per totalitarismi e ingiustizie.

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