Ottant’anni fa, il 27 maggio 1942, due agenti segreti cecoslovacchi ferivano gravemente Reinhard Heydrich (1904-1942), il più potente gerarca nazista del momento. Ne seguirono rappresaglie, torture, fucilazioni, condotte con la consueta spietatezza nazista, ma alla quale era abbinato un desiderio di vendetta barbarico, primitivo: in totale, le persone giustiziate, di ogni sesso ed età, furono più di 5mila.
Oggi i commandos che commisero l’attentato sono ricordati come eroi nazionali: ma ne è valsa la pena? La domanda è provocatoria per qualche lettore, ma per molti altri può apparire quasi retorica. Ed è la domanda che ci facciamo tutti di fronte alla guerra in Ucraina, alle immani devastazioni, alle probabili catastrofi umanitarie che ne conseguiranno. Come reagire di fronte a chi applica con brutale entusiasmo la massima di von Clausewitz “la guerra è la continuazione del procedimento politico con altri mezzi”? Vale la pena reagire di fronte alla strapotenza del proprio oppressore?
È necessario ricordare, in sintesi, la situazione della Cecoslovacchia a partire dai patti di Monaco dell’ottobre 1938 che avevano permesso alla Germania di annettere i Sudeti. La Cecoslovacchia restò così indifesa e la Boemia venne occupata militarmente dai tedeschi nel marzo del 1939, mentre la Slovacchia diventava uno Stato satellite del Reich.
Fin dall’inizio il dominio nazista ebbe la mano pesante coi cechi. Nel settembre 1940 le proteste studentesche furono represse con la massima violenza. Nove studenti furono assassinati e altri 1200 rinchiusi a Sachsenhausen. Ciò nonostante Hitler, sobillato proprio da Heydrich, reputò che fosse necessario condurre azioni repressive ancora più massicce sui boemi per assicurarsi una piena fedeltà fondata sul terrore. Nel settembre 1941 Heydrich otteneva la carica di comandante del protettorato di Boemia e Moravia, inaugurando una politica brutale e astuta, fondata sulla repressione più spietata e sul miglioramento delle condizioni di vita dei propri sudditi. “Pane e terrore” potrebbe essere il motto di Heydrich, soprannominato “L’uomo dal cuore di ferro” da una mammoletta come Adolf Hitler.
Heydrich ha meritato anche altri nomignoli: “il macellaio di Praga”, “la bestia bionda”, il “Giovane dio malvagio della morte” e altre piacevolezze. Proprio lui fu il principale fautore dello sterminio degli ebrei alla conferenza del Wansee nel gennaio 1942. Per cui non c’è da stupirsi se gli Alleati pensarono di eliminarlo, progettando un’operazione di nome “Anthropoid”. Incaricati della missione un moravo, Jan Kubis, e uno slovacco, Josef Gabcik.
Molti giovani militari cecoslovacchi si erano arruolati nei commando britannici per eseguire azioni di guerriglia in patria. Oggi sembra impensabile che questi ragazzi si siano paracadutati sulla Boemia andando incontro a morte quasi sicura: tutt’al più si poteva evitare la tortura suicidandosi col cianuro prima dell’arresto. Nel corso di 13 lanci furono paracadutati 30 agenti, quasi tutti morti in combattimento o in detenzione. Gabcik e Kubis furono lanciati sulla Boemia nel dicembre del 1941 e l’incarico ricevuto (assassinare Heydrich) fu da loro tenuto segreto fino all’ultimo. Era prevedibile, come poi avvenne, che la resistenza cecoslovacca si opponesse all’esecuzione del piano, poiché la rappresaglia nazista sarebbe stata ferocissima e tutto il movimento clandestino sarebbe stato annientato: una previsione che si avverò puntualmente.
E non si trattava solo della sopravvivenza del movimento partigiano cecoslovacco, ormai ridotto ai minimi termini: il vero problema stava nell’obbedire al regime di terrore per salvare la popolazione. Il presidente del protettorato di Boemia e Moravia polemizzò via radio con Edvard Benes, presidente cecoslovacco in esilio a Londra. Il 4 dicembre 1941 dichiarò che c’era in gioco il destino di donne e bambini e che Benes fomentava la resistenza stando al sicuro a Londra: il che era vero quanto rispondente alle attese di Heydrich, la cui strategia aveva avuto pieno successo. Nessuno osava attaccare i tedeschi. Lo stesso Heydrich viaggiava per Praga su una Mercedes nera scoperta, con la sola scorta di un autista e a quanti gerarchi, Himmler compreso, gli raccomandavano prudenza, egli rispondeva che si trattava di una misura fondamentale per l’immagine del regime. Ma Gabcik e Kubis, dopo aver esaminato tutte le possibilità di attacco, decisero che un’imboscata era l’unica modalità di eliminare “il boia di Praga”.
Nel frattempo il movimento clandestino era venuto a conoscenza di Anthropoid e aveva inviato a Benes un memorandum in cui si chiedeva di non attuare il piano o, come minimo, di colpire un leader collaborazionista. Dopo di che la ricostruzione storica si fa alquanto confusa. Sembra che Benes avesse dato ordine di abbandonare la missione, ma ciò non è avvenuto in via esplicita. In altre parole Gabcik e Kubis non ricevettero mai un contrordine. Inoltre proprio alla fine di maggio, spie della resistenza avevano riferito che il 27 maggio Heydrich sarebbe partito per Berlino. L’ultima possibilità per colpire era quindi la mattina del 27, quando i due attentatori si avviarono al luogo dell’imboscata. Un terzo attentatore, Josef Valcik, segnalò l’arrivo della Mercedes nera con uno specchietto. Erano le 10:32. Gabcik si mise in mezzo alla strada e puntò il mitra che si inceppò. Heydrich reagì d’istinto e spianò la pistola invece che allontanarsi come avrebbe dovuto. Fu a quel punto che Kubis gettò una bomba ad alto potenziale sotto l’automobile. L’esplosione ferì Heydrich che continuò a sparare per poi accasciarsi a terra. Non poteva sapere che l’imbottitura di crini di cavallo del divano della Mercedes stava già provocandogli una infezione del sangue.
Dopo l’attentato i nazisti reagirono come belve impazzite. Diecimila cittadini furono arrestati e quelli già in carcere fucilati. Il 4 giugno Heydrich moriva in ospedale. Il 9 giugno 1000 ebrei venivano uccisi per rappresaglia a Sachsenhausen ma già il 6 giugno, sulla base di informazioni errate secondo cui gli attentatori avevano trovato rifugio nel villaggio di Lidice, era stato compiuto uno dei più orrendi massacri di tutta la guerra. 199 uomini di Lidice furono fucilati, 195 e 87 bambini arrestati. Altri 8 bambini si salvarono perché ritenuti di razza ariana. Solo 16 bambini sopravvissero alla guerra.
Per quanto sia triste ammetterlo, il terrore pagò. Uno dei paracadutisti, Karel Curda, crollò moralmente sotto tutto questo orrore, si recò al comando della Gestapo e riferì quanto sapeva. Era il 16 giugno. Il giorno dopo iniziarono i raid della Gestapo nelle case di chi aveva aiutato gli attentatori. I più fortunati riuscirono ad avvelenarsi. Altri furono torturati in modi inenarrabili e, alla fine, il nascondiglio dei paracadutisti fu scoperto. Era la chiesa ortodossa dei Santi Cirillo e Metodio, che venne presa d’assalto la mattina del 18 giugno. I paracadutisti si difesero eroicamente, prima in chiesa poi nella cripta. I superstiti si spararono alla testa. Le teste dei caduti, tra cui Gabcik e Kubis, furono mozzate e mostrate ai parenti. In tutto furono uccisi, subito o nei mesi successivi, 252 tra parenti e fiancheggiatori degli attentatori. Il totale delle vittime, come ricordato all’inizio, è di 5mila.
Nulla cambiò circa l’esecuzione dell’Olocausto, che continuò secondo i piani. La resistenza cecoslovacca fu annientata e l’industria del Paese continuò a produrre per il nazismo. D’altra parte la morte di Heydrich ruppe l’incantesimo di invulnerabilità che si era creato attorno agli onnipotenti gerarchi nazisti e, da subito, gli Alleati considerarono la Cecoslovacchia come Paese alleato. Inoltre, il 21 agosto 1942, il presidente Roosevelt dichiarò che i capi nazisti avrebbero risposto penalmente di quanto commesso: era l’inizio del processo giuridico che avrebbe portato a Norimberga. In definitiva, è quanto mai arduo approvare o meno l’attentato ad Heydrich e le sue conseguenze: ma ciò, va ricordato, è l’unica alternativa alla resa di fronte alla violenza.
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