Nei giorni seguenti all’armistizio con gli anglo-americani reso noto l’8 settembre 1943, e visto dai tedeschi come un ignobile tradimento, i soldati italiani furono catturati, disarmati e rastrellati nei vari teatri di guerra dagli ex alleati. Gli ufficiali, posti davanti alla scelta se continuare a combattere nelle file dell’esercito tedesco in Italia o essere inviati in campi di detenzione in Germania, rifiutarono in massa l’arruolamento. Ebbero il coraggio di dire no al pressante invito delle autorità tedesche e furono tradotti nei campi di concentramento nei territori del Reich, così come i soldati semplici, che saranno impiegati in lavori forzati in condizione di schiavitù.



La Resistenza agli ex alleati divenuti acerrimi nemici nonché invasori del suolo patrio si arricchisce quindi di un ulteriore tassello, in quanto il rifiuto dei militari italiani e le loro condizioni di sussistenza nei campi di detenzione presentano tutte le caratteristiche di una scelta di eroismo. La narrazione politica che ha dipinto i partigiani comunisti come unici artefici della lotta di liberazione, minimizzando o tacendo il contributo dei resistenti di diverso orientamento o di altre formazioni (vedi la Brigata Maiella) e tanto meno dei militari prigionieri o combattenti nelle unità cobelligeranti – gli ultimi soldati del re, come li ha definiti Eugenio Corti – ha per molti anni taciuto su questi fatti.



Emblematico è il caso di Alessandro Natta (1918-2001), iscritto dal 1945 al Partito comunista, nel quale ebbe ruoli apicali fino a diventarne segretario. Raccontò la sua esperienza di internato nei campi in Germania. Tra l’altro, Natta narra come tra i deportati si diffuse il fenomeno delle conferenze che i competenti nei rispettivi settori (docenti di discipline varie o professionisti) tenevano ai commilitoni. Erano espedienti per evitare la noia ma anche modi per rendere i prigionieri più consapevoli della loro condizione.  Il suo libro, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, pronto nel 1954, non fu però pubblicato per l’opposizione del suo stesso partito e vedrà la luce solo nel 1987 (Einaudi).



La storia che qui si è scelto di raccontare è paradigma di molte altre storie nascoste e sconosciute. La straordinaria ricchezza delle fonti documentarie sistematicamente conservate dal protagonista e ordinate dalla famiglia, in particolare dal figlio Giuseppe, ne rendono agevole la ricostruzione e la sottraggono all’inevitabile oblio.

Il tenente dell’Aeronautica Francesco Marcheselli, nato nel 1921 a Bologna, ivi si laurea in scienze economiche e commerciali l’11 luglio 1943 ed il giorno dopo si sposa. Neanche un mese dopo viene inviato in Grecia, zona di guerra, e l’armistizio dell’8 settembre lo sorprende nell’isola di Rodi, che viene subito conquistata dalla Wehrmacht. Da un minuscolo biglietto, intestato così come intestati sono alcuni fogli di carta da lettere, inviato alla famiglia sappiamo che è prigioniero dei tedeschi dalla sera dell’11 settembre 1943 e che si trova in un deposito di carburanti. Racconta di aver ricevuto, a letto febbricitante, “la visita gentile di un tedesco che mi ha tolto il moschetto”.

Nelle convulse giornate successive, Marcheselli, come tanti altri italiani, tenta invano la fuga, nascosto su un camion tedesco. Vive quindi nascosto a Malona, villaggio a pochi chilometri da Rodi, prima in casa di italiani e poi nella locale caserma. Nel frattempo la tentazione di fuggire si ripresenta. L’intenzione è quella di raggiungere le coste della Turchia, Stato neutrale, dalle quali Rodi dista veramente poco: molti italiani però non riescono a raggiungerle e muoiono in mare. Così rassegnato al suo destino, Francesco all’ordine di partenza che gli giunge in novembre decide di presentarsi.

È allora che al tenente viene sottoposta la duplice dichiarazione – vergata a macchina su una cartolina dell’Aeronautica dell’Egeo – che egli non può firmare. Su una si legge: “Mi impegno a continuare il lavoro senza armi, alle dipendenze delle Forze Armate Germaniche, nell’interesse comune italo-tedesco”. L’altra recita: “Mi impegno solennemente a partecipare con le armi, sotto il Comando Germanico e da bravo militare, alla lotta contro l’Inghilterra e i suoi alleati”.

Dopo essere stato chiuso con il tenente Bruno Clerici in una stanzetta del Comando Aeronautica e poi in prigione, i due vengono portati in aereo ad Atene dove sfilano nel centro città coi prigionieri inglesi. Marcheselli vede subito nella persona di Clerici, che ha ben 11 anni più di lui, un riferimento importante. Tra i due ufficiali nasce una forte amicizia, destinata a continuare anche dopo il ritorno alla vita civile. Significativo è che i due abbiano dato vita nel dopoguerra ad una cooperativa edilizia al fine di edificare a Milano, in zona Lambrate, un caseggiato di quattro piani con vari appartamenti per loro e per le loro famiglie.

Il 24 novembre i prigionieri partono in tradotta dopo aver preso della paglia dai vagoni della cavalleria per alleviare le fatiche del viaggio. In una cartolina postale appositamente creata per i prigionieri di guerra, Francesco scriverà alla moglie il 24 dicembre da Versen, in Bassa Sassonia: “Mi trovo internato in un campo nell’alta Germania. Non faccio nulla, la salute è ottima, ottimo l’equipaggiamento invernale. In questi mesi sono stato molto vicino a te e ai miei in intima comunione di cuori. Prego molto per voi tutti, e la novena del S. Natale, che vi auguro ottimo, l’ho dedicata a voi”.

Alla famiglia il 31 dicembre sempre da Versen scrive: “I migliori auguri di buon anno, che speriamo ci ridia la pace cristiana. Spero che siate al sicuro lontano come me da ogni pericolo. Io sto bene e sono vestito a sufficienza. Se potete, inviatemi un pacco (una maglia vecchia e cibi conservabili) di poco valore dato che non si sa se rimango qui”. Alla mamma nel gennaio del 1944 dalla Polonia: “Io sto bene e il clima è mite”, perché nel frattempo il gruppo di prigionieri è stato spostato al campo di Siedlce, 80 km a est di Varsavia.  Gli altri due campi che ospiteranno Marcheselli prima della liberazione sono: Sandbostel, dove nel dopoguerra è stato edificato un sacrario-memoriale e un cimitero di guerra, e Wietzendorf, entrambi nella Bassa Sassonia.

Nonostante le rassicurazioni di tono contrario rivolte alle famiglie, di cui non si intendeva accrescere il dolore con preoccupazioni circa la propria condizione, per 20 lunghi mesi i prigionieri patirono sofferenze, umiliazioni, fame, malattie (specialmente tubercolosi). Furono volutamente definiti internati militari italiani, e non prigionieri di guerra, a seguito di accordi intercorsi tra Hitler e Mussolini, cosa che impediva l’applicazione della Convenzione di Ginevra. Tutto questo costò un duro prezzo: si calcola in 53mila il numero di militari italiani morti in quel periodo in terra tedesca e polacca.

Numerose sono le cartoline e i biglietti di e per il prigioniero Marcheselli conservati nell’archivio di famiglia, dove pure si trovano minuziosi elenchi dei contenuti dei pacchi che la famiglia spediva: vaccino antitifico, aspirina, saponetta, latte condensato, zucchero, cioccolato ecc. I pacchi costituivano un aiuto necessario ad integrare la – ovviamente – scarsa dieta dei campi.

Il tenente di fanteria Vittorio Vialli, appassionato di fotografia, con mille espedienti riuscì a portare sempre con sé una macchina fotografica, scattando di nascosto una grande quantità di foto che illustrano con impressionante eloquenza la vita nei lager. È un diario scritto con le immagini, un documento assolutamente unico dell’odissea vissuta dalle migliaia di soldati in quei frangenti, dal titolo “Ho scelto la prigionia”. Tra l’altro vi troviamo la fotografia della radio ricevente costruita clandestinamente a Sandbostel con materiale reperito fortunosamente nel campo, radio che non venne mai scoperta dalla Gestapo e che permetteva di ascoltare le notizie di Radio Londra, dopo di che veniva ogni volta smontata per essere rimontata alla prossima occasione.

Finalmente, “la mattina del 16 aprile 1945, uscimmo dalle baracche e, anziché il solito kapo sulla torretta, trovammo i carri armati inglesi della Sesta brigata corazzata del Maggiore Cooley. Fuori dalla torretta i soldati con l’elmetto piatto ci guardavano con evidente commiserazione, e noi credevamo di sognare!” così nel suo diario Paolo Cattaneo, compagno di prigionia di Marcheselli.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI