Perfezione, Purezza, Bontà: l’essenza di Dio era tutta declinata nella Chiesa catara. Il resto era frutto del Demonio. In effetti il Credo cataro era profondamente dualista. Il Dio buono era Luce, Purezza, Bontà, in lotta cosmica con il Dio malvagio, Oscurità e Malvagità. Un dualismo “perfetto”, che spiega anche la definizione di “manichei” che diversi contemporanei dettero loro. Comprensibilmente, dato che le forme di dualismo che si incontrano nella storia umana sono molteplici, sino al Lato Oscuro della Forza di novecentesca presenza.
Vero è anche che si possono distinguere almeno due diverse correnti in questo dualismo di fondo: una assoluta, l’altra moderata. La prima opponeva al Dio buono e spirituale, il cui regno era il cielo, un altro principio, appunto maligno, dominatore del mondo terreno e della carne. Questa elaborazione dovette essere insieme cosmologica, religiosa e filosofica, dal momento che, per i catari, dal bene non poteva derivare il male, e dunque “razionalisticamente” vi dovevano essere due principi antitetici all’origine dell’uno e dell’altro. Del resto, non c’era anche un altro passo evangelico a sostenere questa lettura? “Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi, né albero cattivo che faccia frutti buoni” (Luca 6,43).
La corrente moderata vedeva invece in Satana un semplice angelo ribelle – sul modello dell’angelologia cristiana – ma anche creatore della materia insieme agli altri angeli da lui sedotti e quindi decaduti.
Le anime degli uomini sarebbero dunque irretite nella carne e prive del loro corpo spirituale, lacerate così in anima e spirito – quest’ultimo essendo ancora in cielo – e solo grazie a una purificazione derivante dall’astensione dalla carne in tutte le sue forme, dalla preghiera, dal digiuno e dal rifiuto di ogni pratica mondana, avrebbero potuto, alla morte, raggiungere il Paradiso spirituale, unico Aldilà esistente, giacché la Terra era già l’Inferno.
Questa visione lasciava inoltre spazio alla metempsicosi-reincarnazione, nel caso in cui un’anima, al momento del distacco dal corpo materiale, non fosse stata ancora meritoria di tornare nel regno del Dio buono. Il che presupponeva un numero limitato, per quanto ampio, di anime, contro un numero potenzialmente infinito di corpi carnali – con buona pace del fatto che il numero degli uomini che calcano questa valle di lacrime è piuttosto aumentato, nel frattempo.
Le “chiese” catare (con tanto di vescovi e vescovadi) si diffusero in importanti regioni dell’Europa occidentale: dall’Italia centro-settentrionale alla Borgogna, dalla Renania alle Fiandre, dalla Spagna orientale al regno di Francia, sia a nord che a sud, all’Inghilterra. E la stessa multiformità e vastità del fenomeno acuì il senso di minaccia e – in molti casi – impotenza che scuoteva la Chiesa del tempo. Ma da dove derivò un simile successo?
Certo, l’imperfezione della Chiesa stessa era un fattore rilevante, nonostante i secoli XII e XIII abbiano saputo produrre schiere intere di nuovi santi: dai cistercensi di Bernardo ai seguaci di Domenico e Francesco – e basti ricordare che il Cantico di frate Sole è nei suoi contenuti un esplicito “manifesto” anti-cataro, prima di essere la prima e più nobile opera della letteratura italiana allora nascente.
Ma le debolezze della gerarchia e della società cristiane del pieno medioevo non coprono del tutto la scaturigine profonda del “movimento” cataro. Che fu – a mio avviso – segnata da un vasto e veritiero desiderio di salvezza ultima, quasi una risposta a suo modo nuova a un’angoscia esistenziale, a un’aspirazione di purificazione cui la Chiesa del tempo non era in grado di rispondere – o almeno non del tutto, non con tutti, non in tutti i luoghi con la stessa efficacia.
Resta da rispondere all’ultima domanda posta sopra: il catarismo – così inteso – fu un cristianesimo? E dunque un’eresia? O, al contrario, un’altra religione tout court?
Se la questione delle radici e delle origini orientali e segnatamente bogomile (dal predicatore slavo Bogomil, attivo verso la metà del X secolo nella Macedonia bulgara) è stata ormai ridimensionata, il forte carattere evangelico dei gruppi catari fa propendere alcuni per la prima soluzione, mentre il rifiuto dell’azione redentrice di Cristo – peraltro non riconosciuto come Figlio di Dio, ma come angelo neppure incarnato – induce vari studiosi verso la seconda alternativa, a intendere cioè il catarismo come una vera e propria religione diversa – e in qualche modo antagonista – rispetto al cristianesimo, ovvero quello ufficiale e romano della cristianità del XII-XIII secolo.
A parer mio, il catarismo fu un ibrido comprensibile solo nel suo tempo: pur sgorgando dall’acqua cristica della lavanda dei piedi, esso fondava la sua visione del mondo su una demarcazione meccanica tra Bene e Male, di fatto riducendo a nulla (il nichil di cui era costituito lo stesso mondo terreno che i catari condannavano) la liberà umana.
Ne è segno evidente l’unico “sacramento” – per dir così – dei catari, ovvero il consolamentum: una semplice imposizione rituale delle mani – le mani, ancora – da parte di un “perfetto” a un semplice “credente” che, con ciò stesso, diveniva puro. E, nel caso in cui il perfetto autore del “consolamento” avesse peccato (cibandosi di carne, giacendo con una donna, uccidendo…), tutti i suoi “consolati” sarebbero stati dannati con lui.
Meccanicità, appunto, dualistica della Salvezza, che non contempla i colori infiniti dell’iride, ma solo il bianco e il nero assoluti che la cingono e la chiudono al centro.
(2-fine)
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