Mentre il Paese veniva distrutto, il re e la casta militare trattavano una resa divenuta sempre più necessaria. Non si può, in coscienza, contestare al governo Badoglio di aver trattato la resa con gli Alleati, né si può obbiettare come fosse di vitale importanza che il re Vittorio Emanuele, la sua corte e il governo dovessero mettersi in salvo ed evitare di essere fatti prigionieri dai tedeschi. Il punto è la pavidità di chi pose questi obbiettivi come priorità senza pensare ad altre priorità: la difesa del Paese, il destino delle forze armate alle quali dovevano essere forniti ordini per evitare che centinaia di migliaia di militari fossero presi prigionieri, patendo il destino che il re e i suoi generali cercavano di evitare.



E poi quell’irresolutezza, quell’incompetenza che portò alla rimozione dell’eccellente generale Cesare Amè dal comando del Servizio informazioni militari per rimpiazzarlo con quel generale Giacomo Carboni che si sarebbe distinto negativamente durante l’armistizio. Un comando delle forze armate, diretto dal generale Ambrosio, che permise e incoraggiò l’ingresso in Italia di 17 ottime divisioni tedesche. È inconcepibile come, dopo il 25 luglio, solo 6 divisioni italiane siano state fatte rientrare dalla Francia e dai Balcani, dove ben 34 divisioni si trovavano in zona di occupazione a fronte di 31 presenti nel territorio metropolitano. La ragione di tutto ciò? Non insospettire i tedeschi.



La trattativa

E poi la farsa tragicomica delle trattative con il generale Giuseppe Castellano, energico ed intelligente, inviato a Madrid, solo, il 12 agosto, senza essere munito di alcuna credenziale. Castellano, tuttavia, riuscì a stabilire un rapporto di fiducia con gli inglesi e il 19 agosto provvide a inviare due telegrammi cifrati al ministero degli Esteri, annunciando “l’acquisto di una partita di volframio” e “la liberazione di prigionieri ammalati”. Al ministero, però, nessuno comprese il senso di tali messaggi, nonostante vi fossero state precedenti intese e i telegrammi vennero archiviati con la più totale incuria.



Secondo Ruggero Zangrandi tale sciatteria fu, probabilmente, dovuta alla rivalità esistente fra politici e militari ed è scoraggiante pensare che tali beghe potessero far danni mentre il popolo italiano veniva massacrato dai bombardamenti e il Nord Italia era presidiato da interi corpi d’armata tedeschi. Ma tant’è: non avendo notizie di Castellano (che peraltro stava tornando in treno) politici e militari inviarono due missioni in contemporanea, ognuno all’insaputa dell’altra: Dino Grandi, ripescato dal temporaneo oblìo, partì in aereo per Madrid con tutta la famiglia il 18 agosto e fu qui raggiunto dal generale Giacomo Zanussi. Le due delegazioni si incrociarono e si riconobbero all’aeroporto e si può ben comprendere il loro stupore. Gli inglesi, da parte loro, non furono ben impressionati quando videro arrivare a Lisbona Zanussi, accompagnato da un illustre prigioniero, il generale britannico Carton De Wiart. La scelta di De Wiart, infatti, apparve demenziale, in quanto l’ufficiale era riconoscibilissimo, alto due metri e privo dell’occhio e del braccio destro. Lo stesso Zanussi venne sospettato di essere una spia e minacciato di fucilazione quando venne portato ad Algeri a incontrare i plenipotenziari alleati. Successivamente vennero consegnate a Zanussi le clausole del cosiddetto “armistizio lungo” mentre Castellano, dopo un lungo viaggio in treno, era riuscito a tornare a Roma il 27 agosto.

Badoglio e il caos dell’armistizio

Quando Castellano giunse a Roma informò Badoglio e il governo dell’esito delle trattative. Sia Badoglio che gli altri responsabili ritennero di accettare l’armistizio senza però comprendere gli effettivi rapporti di forza esistenti. Castellano, dopo tre giorni di riunioni, venne inviato a Cassibile il 31 agosto munito di direttive un poco più precise, ma accompagnate da annotazioni assurde apposte da Badoglio. La più stralunata di queste era la seguente: “Per non essere sopraffatti prima che gli inglesi (e gli americani?, nda) possano far sentire la loro azione, noi non possiamo dichiarare l’accettazione di armistizio se non a sbarchi avvenuti di almeno quindici divisioni, la maggior parte di esse fra Civitavecchia e la Spezia”. Questo era il capo del governo, maresciallo d’Italia, questo il miglior risultato della cultura militare e politica italiana! Un vecchio militare che era riuscito a trionfare contro gli abissini, venendo poi sconfitto dai greci, impartiva direttive ai vincitori, chiedendo sbarchi colossali senza avere la minima idea della complessità di una simile operazione, dopo che lo stato maggiore italiano non era riuscito nemmeno a prendere Malta!

L’impressione sugli Alleati dovette essere penosa e i “consigli” (o le condizioni?) di Badoglio non vennero presi in considerazione. Ma ancora più farsesco e penoso fu l’incontro fra Castellano e Zanussi dato che nessuno (nessuno!) a Roma aveva avuto il minimo coraggio morale di informare Castellano della missione conferita a Zanussi. Zanussi, a propria volta, non informò Castellano di essere in possesso dell’armistizio “lungo”, quello con le clausole più pesanti, mentre il generale siciliano conosceva solo le clausole dell’armistizio “corto”. Così, il 31 sera, i due generali rientrarono a Roma, ognuno con un testo diverso di armistizio. I responsabili dei destini dell’Italia erano ormai in pieno marasma mentale, come quegli studenti impreparati che, a una prova scritta, cincischiano per ore e poi si arrabattano a scopiazzare negli ultimi minuti senza sapere cosa stiano effettivamente facendo.

I guai dell’Italia non derivavano solo dal fascismo e da Mussolini che, come giustamente aveva scritto Gobetti, erano solo “l’autobiografia della nazione”. Il tempo della resa dei conti sarebbe arrivato per la casta militare e per la monarchia anche se, rispetto al popolo italiano, avrebbero avuto salva la vita e le proprietà, così come avevano voluto.

(2 – fine)

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