La guerra non piace quasi a nessuno. Persino i mercenari non vedono l’ora di fare abbastanza soldi per non dover più correre rischi enormi e non dover più guardare l’orrore in faccia. “War is hell” diceva il generale Sherman ed è certo che, se i criteri della guerra legittima, elencati nel catechismo della Chiesa cattolica, fossero stati osservati, ci saremmo risparmiati parecchi conflitti negli ultimi venti anni.



Eppure ci sono guerre che vanno combattute, checché ne dicano i pacifisti di ogni colore o religione. Il nazismo non è stato abbattuto a parolacce o proteste e così molte delle dittature che hanno funestato il XX secolo: e se la Corea del Sud è un paese prospero, tra i leader dell’economia mondiale, e non è ridotta alla fame come la Corea del Nord, ciò è dovuto alla legittima resistenza opposta dai sudcoreani e dalle Nazioni Unite settant’anni fa. Ed è curioso come vi siano così tanti film e opere letterarie sulla Seconda guerra mondiale e sul Vietnam, ma poco o nulla sulla Corea.



Cercheremo di scoprire insieme il perché di questa smemoratezza collettiva in questo e in altri articoli che seguiranno nei prossimi anni, in corrispondenza con gli anniversari degli avvenimenti principali.

Perché, diciamolo chiaro, quella della Nord Corea fu un’aggressione in piena regola, contraria a qualsiasi diritto delle genti, improntata a una brutale ed efficiente spietatezza da parte di un esercito numeroso, ben armato e addestrato ai danni di un paese quasi indifeso. Come era potuto accadere?

La ragione principale sta nell’ottusità della politica estera americana, concentrata sull’Europa. Si era appena concluso, nel maggio 1949, il blocco di Berlino: la capitale tedesca, assediata e affamata, era stata salvata da un gigantesco ponte aereo. Una vittoria relativa, perché Stalin e Mao Zedong (proprio loro, le icone del male del XX secolo insieme a Hitler) pianificarono l’invasione della Sud Corea in quanto sapevano che gli Stati Uniti non l’avrebbero difesa.



I due dittatori videro confermate le proprie ipotesi dalle dichiarazioni del segretario di Stato, Dean Acheson, che, il 12 gennaio 1950, dichiarò pubblicamente come la Corea non rientrasse nella sfera di interessi americana. L’atteggiamento fu confermato dalla tormentata approvazione, da parte del Congresso americano, del piano di aiuti militari alla Corea nel febbraio dello stesso anno: segno che anche il Congresso non vedeva l’opportunità di difendere la penisola.

Così il 25 giugno l’esercito nordcoreano (Nkpa: North Korean People’s Army) forte di 100mila effettivi e 130mila uomini di riserva, attaccò l’esercito sudcoreano, massacrandolo e travolgendolo e occupando Seul appena al di là del confine. Le divisioni corazzate comuniste proseguirono l’offensiva per raggiungere una vittoria totale.

A quel punto il presidente americano Truman si accorse della grossolana sottovalutazione che lui e i suoi collaboratori avevano dato alla situazione. In pochi giorni furono inviati a Pusan, il porto più meridionale della penisola, tutti gli uomini e i mezzi disponibili inquadrati nella 24ª divisione di fanteria “Tropical Lightning”. Si trattava di soldati disabituati al combattimento che si trovarono a combattere in situazioni disperate. Eppure, nonostante molti cedimenti, le forze statunitensi raggruppate nell’8ª armata del generale Walton Walker, piccolo e aggressivo come un bulldog, resistettero ogni giorno di più, cedendo sempre meno terreno e infliggendo perdite sempre più pesanti.

All’inizio di settembre l’8ª armata e i sudcoreani si trovavano trincerati nel perimetro difensivo di Pusan, ma con un alleato decisivo. Le Nazioni Unite, per la prima volta nella storia, grazie anche alla stupidaggine dei sovietici che non avevano esercitato il diritto di veto nel Consiglio di sicurezza, scesero in campo, creando una forza internazionale con missione di “Peace enforcing”. Iniziarono ad affluire contingenti inglesi, francesi, australiani, filippini. Chi abbia visto la semifinale dei campionati di calcio giocata tra Turchia e Corea del Sud, ricorderà l’atmosfera di festa e di fratellanza: i coreani non avevano dimenticato le imprese del corpo di spedizione turco che si batté con coraggio estremo nel 1951.

La ritirata su Pusan fu permessa dal sacrificio di retroguardie condannate a morire perché i nordcoreani facevano pochissimi prigionieri. Vi furono episodi che sembrano sparate propagandistiche da film hollywoodiano, come quello che vide il sergente Ernest Kouma, carrista della 2ª divisione di fanteria. Il suo carro armato M26 era l’unico rimasto in linea e, per tutta la notte del 31 agosto, Kouma respinse gli assalti nemici. A un certo punto il carro fu circondato e Kouma si issò sulla torretta allo scoperto per manovrare la mitragliatrice Browning. Esaurite le munizioni continuò a combattere con la pistola, per poi ritirarsi con il proprio carro, aprendosi la strada a cannonate, infliggendo perdite spaventose agli attaccanti.

Ma c’è un’altra Medal of Honor di quei giorni che ha un significato particolare: il soldato William Thompson, 24ª divisione, sacrificò la propria vita per proteggere la ritirata dei propri compagni. Thompson era afroamericano e, fino ad allora, era stata praticata la segregazione razziale anche nell’esercito americano. Con una legge del 1948 Truman permise l’integrazione nell’esercito dei neri d’America che si rivelarono, come tutti i soldati del mondo, valorosi e disciplinati se ben addestrati e inquadrati.

A settembre il perimetro di Pusan resisteva ancora e, anzi, l’8ª armata era ora più forte dei nordcoreani che continuavano a sferrare attacchi selvaggi con perdite atroci. Il comandante in capo delle forze dell’Onu era il generale Douglas MacArthur: egocentrico e geniale, MacArthur avrebbe alternato fallimenti colossali a vittorie strepitose quale quella di Inchon.

L’idea di MacArthur era di sbarcare la 1ª divisione dei marines e conquistare questo porto a 30 chilometri da Seul, tagliando così la ritirata a tutto l’esercito nordcoreano. Un piano folle, perché le maree raggiungevano l’altezza di 9 metri alle 7 del mattino, permettendo gli sbarchi, ma la marea si ritirava durante il giorno lasciando una distesa di fango, per poi ritornare alle sette di sera: il che significava che i primi reparti marines dovevano conquistare l’isola di Wolmi-do, all’imboccatura del porto, e rimanere isolati per dodici ore.

Il 15 settembre la forza di sbarco prese terra e i contrattacchi nordcoreani furono stroncati dall’artiglieria navale. Il 1° reggimento marine dovette aspettare la marea favorevole e sbarcò alle 17.30 e altrettanto fecero gli elementi di testa del 5° marines. Lievi le perdite americane, molto più pesanti quelle nordcoreane. MacArthur aveva il porto dove sbarcare un corpo di spedizione e ben di più.

L’aeroporto di Kimpo fu conquistato il 17 settembre e il 20 gli americani, passando il fiume Han, erano in vista di Seul. Tutto l’esercito nordcoreano era ancora fermo a Pusan e gran parte di esso sarebbe stato annientato nelle settimane successive.

La guerra sarebbe proseguita con esiti alterni, ma un fatto è certo: la vittoria di Inchon e la resistenza a Pusan salvarono il Giappone e, di fatto, evitarono una conflagrazione mondiale. A conseguire quella vittoria era stata una generazione dalla quale noi occidentali siamo molto diversi: più equilibrati, più ripuliti ma con cuore, cervello e attributi alquanto più esigui. Per questo Inchon è una vittoria, stricto sensu, memorabile.