Le operazioni che furono poste in essere dai servizi segreti francesi dai primi anni 80 al 2000 furono molto diverse fra di loro e richiesero una profonda ristrutturazione dei servizi di sicurezza, ristrutturazione che fu necessaria a causa del fatto che gli avversari erano diversi sia sotto il profilo ideologico che sotto il profilo delle tattiche delle strategie volte a destabilizzare l’Occidente.



Incominciamo dalla Bulgaria. Questo Paese balcanico offrì, a partire dal 1984, un disertore, il colonnello “Ivanov”. Illegale della Duržavna Sigurnost (Sicurezza di Stato bulgara, DS) infiltrato in Francia nel marzo 1966, era stato arrestato nell’ambito di una banale vicenda di truffa legata alla sua attività commerciale. Temendo il carcere più di ogni altra cosa, aveva rivelato la sua identità al giudice istruttore; questi ne aveva informato la DGSE che lo trattò fino alla caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989. A quella data, permise alla DGSE di instaurare relazioni dirette con il DS. Lo scopo dell’intervento francese era infatti quello di privilegiare il canale che passava per l’Ungheria e la Cecoslovacchia per penetrare in Polonia, posta in stato d’assedio il 13 dicembre 1981.



Ma sarà il fronte afgano e poi quello del terrorismo islamico a costituire il terreno privilegiato delle operazioni dell’intelligence francese, come nella gran parte dei servizi segreti occidentali. La DGSE utilizzò la stessa tecnica in Afghanistan, dopo la partenza dei sovietici da quel Paese, nel febbraio 1989. Da tre anni, il servizio francese non risparmiava sforzi, con mezzi certo limitati, per sostenere la resistenza. Alla fine del 1985, alcuni afghani erano stati accolti in Francia. A dicembre, per tre mesi, dieci studenti, tra cui un certo Hamid Karzai, erano stati accolti alla Scuola superiore di giornalismo di Lille; una fuga di notizie dal quotidiano comunista L’Humanité mise fine all’esperienza, che avrebbe dovuto continuare a Peshawar.



Questo teatro non apparteneva alle zone tradizionali di operazione dello SDECE, che faceva parte della strategia di informazione collaterale messa in atto da Marenches; ma trovò, a metà degli anni 80, un legame con le ramificazioni che i combattenti afghani potevano avere con il terrorismo che colpiva la Francia. Non erano le centinaia di reclute del Maktab Khadamāt al-Mujāhidīn al-‘Arab (MAK, Bureau des services), creato nel 1984, a preoccupare il servizio di intelligence francese all’epoca, né la presenza alla sua testa del finanziere saudita ‘Usāmah bin Muhammad bin ‘Awad ben Laden. Era già noto alla DGSE che lo aveva individuato in Libia, tentando invano di organizzare una guerriglia contro Gheddafi qualche anno prima. Le attività di Bin Laden furono seguite fino al 1989 dalla DGSE (come dagli altri servizi di intelligence internazionali), poi uscirono, come l’Afghanistan del resto, dai centri di interesse dell’intelligence francese.

Vi tornarono a causa dell’importanza delle organizzazioni non governative francesi operanti nella regione e, soprattutto, della modifica della natura della minaccia terroristica contro la Francia. Le indagini sulla serie di attentati, dall’11 luglio 1995 al 3 dicembre 1996, attribuiti all’algerina Jama’ah al-Islamiyah al-Musallaha (Gruppo islamico armato, GIA), avevano fatto emergere due elementi distinti che portavano a Bin Laden e all’Afghanistan. Il primo era legato, a partire dal 1992, all’irruzione di una nuova guerra civile in Europa, tra le repubbliche che componevano la Jugoslavia. Il conflitto si era rapidamente cristallizzato in Bosnia, dove croati e serbi tentarono di eliminare i musulmani, la terza nazionalità costitutiva di questa entità multiculturale. Ex “afghani” non tardarono a unirsi a questa nuova battaglia, in nome della solidarietà islamica. Portavano con sé nuove reclute, arruolate nelle classi popolari del mondo arabo, ma anche nelle periferie francesi. La DST e i RG cioè i servizi di sicurezza francesi preposti alla sicurezza interna avevano visto, nella comunità algerina di Francia, riapparire strutture clandestine logistiche, non più al servizio del FLN, come negli anni 60, ma delle fazioni islamiste che irrigavano la violenza sia in Algeria che in Bosnia e, a partire dal 1995, in Francia, per poi raggiungere gli Stati Uniti.

Rapidamente i servizi di intelligence e di sicurezza scoprirono che queste nuove azioni terroristiche facevano parte di una strategia più ampia. La condivisione delle informazioni all’interno dell’Unità di coordinamento della lotta antiterrorista (UCLAT), creata nel 1984 presso il ministero dell’Interno sulle basi dell’ex Comitato permanente di coordinamento (1976-1982) e dell’Ufficio di collegamento antiterrorista (1982-1984), mostrò chiaramente già nel marzo 1998 l’implicazione di Bin Laden; per la seconda volta nella sua carriera, era stato osservato, questa volta dalla DST e in Sudan, grazie ai suoi legami con i servizi di quel Paese. Sebbene avesse fornito al governo la prima biografia del personaggio in un’epoca in cui aveva lasciato l’Africa per l’Afghanistan (1996), rimaneva il fatto che il fondatore di Al Qā‘idah (Al Qaeda, la Base) non era che uno degli animatori del movimento islamista tra tanti altri.

Inoltre, nonostante la sua identificazione, questa nuova minaccia presentava una differenza rispetto al terrorismo degli anni 80: questa volta non c’era nessun messaggio da trasmettere, almeno non per gli Stati occidentali, tra cui la Francia. Questa realtà apparve ai servizi di intelligence interni nella primavera del 2012. Nella regione di Tolosa, una serie di attentati, l’11, 15 e 19 marzo 2012, seminò scompiglio mediatico nella comunità dell’intelligence. Nonostante la rapidità dell’inchiesta, data la differenza di cultura tra la polizia giudiziaria e la nuova Direzione centrale dell’intelligence interna (DCRI), creata nel giugno 2008 dall’unione della DST e dei RG, l’arresto prese la forma di un assedio trasmesso da tutti i media francesi, iniziato nella notte tra il 20 e il 21 marzo e terminato più di trenta ore dopo con la morte dell’assassino, un certo Mohammed Merah. Da quel momento, la sequenza degli eventi sfuggì ai servizi per essere strumentalizzata mediaticamente e politicamente. La questione della competenza della DCRI fu messa in evidenza quando emerse che Merah, con il profilo di un piccolo criminale, era un terrorista che si dichiarava membro di Al Qaeda.

Merah era persino identificato dai RG di Tolosa dall’ottobre 2006 come un “membro del movimento islamista radicale, suscettibile di viaggiare e di fornire supporto logistico ai militanti estremisti”. Ciò non gli impedì di viaggiare in Medio Oriente (dalla Turchia all’Egitto) dal 25 luglio al 18 ottobre 2010, poi di recarsi in Afghanistan dal 29 ottobre al 3 dicembre successivo, infine in Pakistan e in Afghanistan dal 19 agosto al 19 ottobre 2011, ogni volta munito di un visto turistico in regola. In Israele, in Pakistan e in Afghanistan, attirò l’attenzione della polizia di frontiera israeliana, dell’Inter-Services Intelligence pakistana e della National Security Agency americana. Il suo “potenziale di pericolosità” fu notato ogni volta, come rilevò la DCRI durante le sue indagini, da gennaio ad agosto 2011. Ma Merah era diventato prudente al contatto con gli attivisti afghani, applicando la taqiya, quest’arte della dissimulazione, considerata un’arte della guerra e diventata, dalla seconda metà degli anni 90, un criterio di selezione di coloro a cui venivano affidate azioni terroristiche, in particolare negli Stati Uniti e in Europa, al termine della loro formazione nei campi di Al Qaeda.

(1 – continua)

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