Dicembre 1940. Un idrovolante della Regia Aeronautica Italiana è in volo di ricognizione sull’Adriatico. Ai comandi dell’aereo, partito da Taranto alle 9 del mattino, è il capitano pilota Amerigo Javarone. Il piano di volo prevede un pattugliamento nel tratto di mare compreso tra Punta Stilo in Calabria e l’isola greca di Corfù.
Si tratta di una missione di pattugliamento, considerata quasi di routine. A partire dall’autunno 1940 i voli di ricognizione degli aerei italiani si erano fatti più frequenti, a seguito delle iniziative aggressive della flotta britannica. Dopo la battaglia di Punta Stile del 9 luglio 1940, risoltasi senza perdite, la notte tra l’11 e il 12 novembre era stata la volta dell’attacco al porto di Taranto da parte degli aerosiluranti inglesi partiti dalla portaerei Illustrius, che erano riusciti a colpire e danneggiare tre navi da battaglia ed un incrociatore italiani.
L’aereo del comandante Javarone è un Cant Z.501 Gabbiano, un idrovolante monomotore con un equipaggio di quattro uomini: il pilota, un osservatore di Marina, un motorista e un armiere. Il velivolo è armato con due mitragliatrici Breda Safat da 7,7 mm. Il suo motore da 900 HP gli consente una velocità massima di soli 275 Km/h. Nel caso in cui l’aereo fosse stato intercettato dai caccia inglesi, capaci di raggiungere oltre 500 km/h, l’unica possibilità di fuga era infilarsi nelle nubi.
In quella fredda giornata di dicembre il mare è calmo, il cielo terso, e le nubi assenti. La visibilità ottima permette allo sguardo di spaziare lungo tutto l’orizzonte. L’equipaggio italiano continua incessantemente a scrutare il cielo.
È ormai pomeriggio inoltrato. L’aereo, che vola alla quota di circa 1.000 metri, è giunto nei pressi di Corfù e si appresta a virare verso la Puglia ed a prendere la rotta di rientro verso Taranto, dove l’arrivo è previsto poco prima del tramonto. Nel corso della virata l’equipaggio italiano avvista nel cielo un puntino che sembra avvicinarsi velocemente. In pochi minuti il puntino si ingrandisce e permette una identificazione sicura: si tratta di un velivolo Sunderland S25 della Royal Air Force britannica. Il Sunderland è un idrovolante quadrimotore lungo 26 metri con una apertura alare di 35. Porta un equipaggio di 16 uomini ed è armato con otto mitragliatrici cal. 303 (equivalenti alle 7,7 italiane) e due Browning Cal. 12,7. Con i quattro motori Bristol Pegasus da 1010 HP può raggiungere una velocità massima di 338 km/h. È evidente la sproporzione tra i due velivoli. Il Sunderland è un aereo di concezione più moderna, più grande, più veloce e meglio armato dell’aereo italiano.
L’inglese vira e si affianca all’aereo italiano, volando sulla stessa rotta, ad una distanza di circa mille metri. Le torrette delle mitragliatrici dei due velivoli ruotano, e vengono puntate verso il nemico. L’esito di un eventuale scontro sarebbe stato certamente disastroso per l’aereo italiano. I mitraglieri italiani aspettano dal comandante l’autorizzazione ad aprire il fuoco, che però viene negata. L’inglese non sembra avere intenzioni ostili e si avvicina all’aereo italiano. La tensione a bordo è altissima, ma nessuno tocca le armi. I due equipaggi possono chiaramente scorgere le fisionomie dei nemici, che volano ormai a poche decine di metri da loro. Nessuno apre il fuoco.
Gli aerei procedono appaiati per un tratto, senza spararsi un colpo. Il pilota del velivolo inglese si volge verso l’aereo italiano. I due piloti incrociano lo sguardo. L’inglese alza una mano in un gesto di saluto, al quale il pilota italiano risponde emozionato. L’aereo inglese accelera e con una ampia virata si dirige verso il mare. Ognuno riprende la rotta verso casa.
La cosa ha dell’incredibile, e l’equipaggio dell’aereo italiano ancora stenta a credere a quello di cui fino a pochi istanti prima è stato testimone: nel mezzo del conflitto per una volta i nemici decidono di non spararsi. I protagonisti di questo strano incontro si domandano per quale motivo questa improvvisa tregua non dichiarata possa avere avuto luogo. Molti anni sono passati, ma Amerigo Javarone ricorda ancora con chiarezza la data di quell’incontro: era il 24 dicembre 1940, la vigilia di Natale.
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(L’episodio è raccontato in prima persona dal protagonista nel suo volume autobiografico: Amerigo Javarone, “Il lungo inverno del 1944”, Edizioni Gae, Milano 2002)
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