Continua la storia di Josef Brycks. Quarta e ultima parte. Leggi qui la terza puntata

Nel 1952 Josef Bryks venne trasferito nel carcere di Leopoldov, in Slovacchia, dove scrisse quelle parole molto forti che abbiamo evocato nell’incipit di questa storia: “sono rimasto deluso per aver sopravvalutato l’essenza dell’anima ceca”. Doveva sentirsi davvero tradito nel profondo, Josef, per scrivere queste parole in un documento ufficiale che sarebbe rimasto nelle mani del regime. Ma nessun sopruso, tra le fredde mura della prigione, avrebbe tolto a Bryks il desiderio di tornare tra le braccia di Gertrude Dellar, “Trudie”. La speranza di riabbracciare la figlia e vivere una vita da uomo libero, in un paese libero. Così non venne praticamente mai meno la determinazione a sfidare quel sistema che lo aveva tradito: i battibecchi con le guardie erano all’ordine del giorno. Le punizioni corporali ne erano la naturale conseguenza. Spesso Josef veniva gettato in isolamento. Altrettanto spesso rifiutava il cibo, lanciandosi in prolungati scioperi della fame. Pare che quando arrivò l’ordine di trasferire Bryks a Jáchymov, le guardie di Leopoldov tirarono un sospiro di sollievo: finalmente quel gran casinista se ne sarebbe andato.



Jáchymov e il “cuore prigioniero” – Quello che si sa del primo periodo di permanenza di Josef Bryks a Jáchymov potrebbe sembrare sorprendente. Incurante della fatica e del durissimo lavoro nelle miniere di uranio, Bryks veniva descritto come eccellente lavoratore, che superava molto spesso la norma prestabilita, raggiungendo anche valori del 140%. Naturalmente, c’era una spiegazione: il regime dei campi di lavoro, per quanto duro, era diverso da quello carcerario. Non esistevano vessazioni notturne (in carcere invece c’era l’obbligo di tenere le mani fuori dalle coperte durante il sonno, le luci della cella venivano accese e spente in continuazione, per tacere delle grida e dei rumori con cui le guardie toglievano il sonno ai detenuti). Cosa molto più importante: i detenuti venivano pagati per il lavoro che svolgevano nel campo. Il compenso era ridicolo, naturalmente. Ma era qualcosa a cui poter affidare una speranza.



Josef Bryks lavorava duramente perché in questo modo poteva provvedere al sostentamento del padre malato. E perché poteva mandare qualcosa anche alla moglie e alla figlia in Gran Bretagna. Era una rivendicazione, una piccola libertà che Bryks sentiva di essersi ritagliato in quel contesto di sofferenza che era la prigionia.

I compagni di prigionia non potevano che ammirare la sua determinazione. Ed erano convinti che tanto zelo avrebbe potuto anche portare a una scarcerazione anticipata.

Ma il regime non era d’accordo. Aggiungendo insulto al tormento che già infliggeva a Josef Bryks, nel dicembre del 1955 la direzione del campo decise che non era più consentito provvedere al mantenimento di altre persone tramite il denaro guadagnato con il lavoro forzato. “Scendevo con piacere in miniera”, scrisse Bryks al padre tre mesi dopo, nel marzo del 1956, “come se quel buco potesse essere un paradiso. Se non posso aiutare né Voi né la mia figlioletta, non ho più motivo di vivere”. La depressione prese il sopravvento. Josef diventò un’ombra. Non si intravedeva più nei suoi occhi la forza che lo aveva sostenuto quando pianificava le fughe dai campi di prigionia tedeschi. Neppure la determinazione ad opporsi al regime comunista. E nemmeno la speranza di rivedere e riabbracciare Trudie e la figlia Sonia.



I mesi si trascinarono stanchi e monotoni fino all’ agosto del 1957. La notte tra l’11 e il 12 agosto quel “cuore prigioniero” che aveva ispirato gli sceneggiatori britannici undici anni prima andò letteralmente in pezzi. Sono parole di chi ebbe modo di fare l’autopsia: mai visto nulla del genere. Ma Josef Bryks non avrebbe avuto pace nemmeno da morto.

Memoria e giustizia postuma – Dopo la morte il regime decise di non rilasciare i resti (cremati) di Josef Bryks alla famiglia, e di non concedere nessun rito funebre. L’urna con i resti di Bryks si sarebbe così smarrita per lunghi anni nei meandri della burocrazia comunista. Tutto quello che Trudie ricevette fu un freddo telegramma che annunciava la morte di Josef per “problemi di salute”.

La donna nel frattempo si era trasferita negli Usa insieme alla figlia Sonia. Non avrebbe mai smesso di lottare affinché il marito fosse riabilitato, né di cercare informazioni su di lui e sulla sua fine. In quella che si sarebbe rivelata come una vera e propria via crucis, Trudie Bryks dovette aspettare che il regime cadesse per vedere il marito riabilitato dai tribunali. Ma quella del 1989 fu una riabilitazione parziale: Bryks risultava essere comunque ancora un fuorilegge, un traditore.

Pubblicamente, tantissimi conoscevano la sua storia, e molti già ne onoravano la memoria. In particolare, gli furono tributate diverse onorificenze militari, dedicate targhe celebrative in luoghi significativi della sua esistenza. Gli fu anche dedicata una via di Praga. Solo lo Stato e la giustizia sembravano continuare a ignorarlo. Ma alla fine, nel 2006, quasi cinquanta anni dopo la morte, arrivò la piena riabilitazione. Una Trudie visibilmente commossa avrebbe poi assistito alla nomina postuma del marito a Cavaliere di Gran Croce di II Classe dell’Ordine del Leone Bianco, da parte del presidente ceco Václav Klaus. Non esiste onorificenza più alta nell’attuale Repubblica Ceca. Trudie era ormai sola, visto che la figlia Sonia morì di leucemia nel 2000. Dopo aver sposato Josef Bryks non si sarebbe mai più risposata. E nel 2011 potè spirare in pace nella sua casa di Washington, per poi essere trasferita nella tomba di famiglia, per riposare finalmente a fianco della figlia e del marito nel cimitero di Bohuňovice, vicino a Olomouc.

Una storia come quella di Josef Bryks oggi può sembrare incredibile. Un uomo dalla forza di volontà incrollabile, dal coraggio esemplare, dal cuore forte e buono. Un uomo che desiderava combattere il male quando troppi nel mondo ancora nemmeno si erano resi conto di quanto il male fosse attuale e presente, e stesse diventando sempre più pericoloso. Un uomo che avrebbe pagato con la propria vita l’aver riconosciuto nel nuovo regime un male altrettanto crudele e disumano. Un uomo che morì a quarantun anni, dopo averne passati più di tredici dietro le sbarre o il filo spinato. Un uomo straordinario che conobbe e sposò una donna straordinaria, che riuscì a ristabilirne l’onore a costo di grandi sacrifici e sofferenze. Josef e Gertrude Bryks ci ricordano oggi l’importanza di sperare e credere nel bene anche di fronte alle più grandi difficoltà. Perché, per citare Havel e concludere, “la speranza non è la convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo. La speranza è la certezza che ciò che stiamo facendo ha un significato”.

(4 – fine)