Essere cattolici, nei Paesi al di là di quella che si chiamava “Cortina di ferro” quando il comunismo era al potere, significava quasi automaticamente essere considerati nemici dello Stato.
In Cecoslovacchia il terrore e la sofferenza iniziarono ufficialmente nel 1948, anche se in diverse zone del Paese i comunisti avevano già sopraffatto le istituzioni locali, creando le prime strutture di potere che avrebbero poi solo consolidato una volta ottenuto il controllo totale.
A questo controllo non potevano certo sfuggire le chiese cristiane, cattoliche o protestanti che fossero. Il papa per il regime era il rappresentante di uno Stato nemico, una potenza straniera che minacciava la cosiddetta “democrazia popolare”. Per questo motivo i cattolici ebbero sicuramente più problemi con il comunismo rispetto ai loro fratelli protestanti.
Una storia particolarmente interessante nella sua semplicità è quella del padre lazzarista Ján Hutyra e di sua nipote Alžbeta Košalová. Se poi a raccontarla è la stessa Alžbeta, in prima persona, il valore di questa testimonianza di Oral History aumenta esponenzialmente.
Ján Hutyra era nato il 12 febbraio 1912 a Jablonov, un piccolo villaggio nella regione dello Spiš, nella Slovacchia nord-orientale. Entrato in seminario nel 1931, il giovane Ján non godeva di buona salute e fu presto costretto al ricovero in ospedale nella vicina città di Levoča. Lì svolgeva la propria missione un gruppo di suore appartenenti all’ordine delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli. Hutyra rimase molto colpito dal carisma e dal modo in cui le suore svolgevano la propria missione e chiese e ottenne dal vescovo Ján Vojtaššák (uno dei tre vescovi martiri del comunismo slovacco, assieme a Pavol Peter Gojdič e Michal Buzalka) di poter lasciare il seminario diocesano per entrare nella Congregazione della Missione di San Vincenzo de’ Paoli, i cui membri sono anche chiamati “Vincenziani” o, appunto, “Lazzaristi”.
Padre Hutyra fu arrestato nel 1947 (prima quindi del golpe comunista) e nel 1950. Nel secondo caso, sospettato di avere diffuso volantini dal contenuto anti-regime, ancora sofferente per problemi di salute, fu deportato dall’ospedale direttamente nel monastero convertito in campo di concentramento di Podolinec e poi nel campo di Belušské Zlatiny. Fuggito nel 1951, iniziò a dirigere clandestinamente la provincia della Congregazione e coordinare la formazione delle Figlie della Carità. Tra i vari nascondigli di padre Hutyra c’era anche la casa della famiglia della sorella Maria: la madre di Alžbeta, la nostra “testimone”, che nel 2019 ha raccontato la sua storia a Sandra Blahútová e Soňa Kurtá, due allieve della Scuola elementare e media “Daniel Fischer 2” di Kežmarok, per il progetto Nenápadní Hrdinovia, ovvero “Gli Eroi Silenziosi”.
La giovane, che era nata nel 1937 sempre a Jablonov, aveva solo 15 anni quando lo zio Ján venne a nascondersi nella casa di famiglia per la prima volta. Nascosto in una minuscola stanza di un metro quadro, la cui porta era coperta da mucchi di mobili in disuso e cappotti, padre Hutyra usciva solo quando era sicuro non ci fossero estranei in casa. La stanza non era nemmeno riscaldata e Alžbeta ricorda come, pur ragazzina, fosse spesso in pensiero per le condizioni dello zio, come quella volta in cui una cugina venne a farle visita e lei avrebbe voluto dirle di andarsene, per permettere allo zio di uscire dallo stanzino e stare un po’ al caldo. “Alla fine lei capì e se ne andò. Il povero zio uscì dal suo nascondiglio e mi disse ‘Bety, non era possibile farla andare prima?’. Mi venne da piangere, pensando a quanto dovesse soffrire il freddo. Quella sera stessa venne ancora da me e mi chiese scusa per avermi fatto quella domanda. Rimasi molto colpita e ringraziai Dio per tutto questo”.
Padre Hutyra celebrava ogni giorno la Santa Messa, e Alžbeta, entusiasta, si improvvisava ministrante. La ragazza si era conquistata la fiducia dello zio, che arrivò infine a chiederle se non fosse disposta a fargli da “staffetta” per consegnare lettere e documenti alle sorelle Figlie della Carità nelle lontane città di Ružomberok e Trenčín. Alžbeta rispose “Sì, senza la minima esitazione”, iniziando così, appena quindicenne, a sfidare quel regime totalitario che pretendeva di tenere sotto controllo ogni minimo dettaglio dell’esistenza. Una sfida in nome della carità e della fede che con tanta semplicità viveva grazie alla testimonianza viva dello zio Ján. Alžbeta portava la corrispondenza alle Figlie della Carità, che a loro volta la incaricavano di consegnare lettere e documenti allo zio, e se capitava che perdesse il treno o non riuscisse a rientrare in tempo per andare a scuola il giorno successivo le scrivevano anche le giustificazioni per evitarle problemi e scocciature: ufficialmente, Alžbeta era stata da loro per sottoporsi a cure necessarie per la propria salute.
La situazione precipitò nel 1958 con l’arresto del padre di Alžbeta, Michal Košal. In quel momento lo zio Ján si trovava in un altro nascondiglio e la ragazza andò a trovarlo per annunciargli l’arresto del padre e dirgli di fuggire altrove. Un paio di giorni più tardi la polizia segreta arrestò anche Alžbeta. Il suo primo incontro con il potere fu traumatico: gli agenti la minacciavano e rispondevano sgarbatamente alle sue domande innocenti (“Dove mi portate?” … “Non hai studiato la geografia, a scuola?”). Arrivati a destinazione, a Levoča, la giovane fu interrogata da una dozzina di agenti. La bombardarono di domande: “Dove si nasconde padre Hutyra? Quando lo hai visto l’ultima volta?”.
Le chiesero di scrivere le risposte su un foglio di carta. Lei, con uno stratagemma, li mise fuori strada facendoli arrabbiare, evitando al tempo stesso di mentire: scrisse infatti “Vidi mio zio… nel 1949, in ospedale a Martin, dove era ricoverato”. Omettendo di scrivere “l’ultima volta” aveva evitato di mentire e quel semplice esercizio le aveva dato sicurezza. Il merito era anche dello zio Ján: era stato lui, infatti, a farle capire come rispondere in certe condizioni evitando di mentire ma al tempo stesso anche di rivelare informazioni che avrebbero creato problemi a lui o alla famiglia di Alžbeta.
L’interrogatorio sfinì la ragazza e i suoi aguzzini, che alle sei del mattino successivo decisero di darle del tè e qualcosa da mangiare. Lei rifiutò e, passato poco tempo, fu trasferita in carcere a Košice, accusata di proteggere lo zio e di conoscerne il nascondiglio.
Alžbeta passò diversi giorni in cella da sola, e nel ricordare quei momenti riconosce comunque come le condizioni in cui si trovò fossero migliori di quelle di chi venne incarcerato nei primi anni 50. Poi ricorda come a un certo punto si ritrovò con una compagna di cella che lentamente conquistò la sua fiducia. Era una prigioniera politica, e raccontava come avesse difeso il proprio parroco e come la famiglia subì diverse perquisizioni che misero a soqquadro la casa. Alžbeta si sentì quindi spinta a condividere le proprie esperienze, facendo l’errore di menzionare un particolare decisivo: il fienile in cui i genitori avevano nascosto rosari e articoli religiosi proibiti. E scoprì così che la sua compagna di cella era una delatrice, sentendosi in colpa per aver causato problemi ai propri cari.
Dopo circa due mesi e mezzo di “custodia cautelare”, Alžbeta fu rilasciata in attesa di processo, fissato per l’8 dicembre del 1958.
Intanto però anche lo zio Ján fu scoperto, arrestato di nuovo e condannato a dieci anni di carcere duro. Liberato grazie all’amnistia del 1965, non si sarebbe mai lasciato intimorire dal regime e avrebbe continuato la propria missione al servizio dei giovani, della Congregazione e delle Figlie della Carità, fino alla morte, avvenuta il 20 febbraio 1978.
Alžbeta Košalová, invece, fu condannata a un anno di reclusione che scontò tra Košice e Pardubice. Ai carcerieri che, prima di rimetterla in libertà, chiesero se avrebbe rifatto quello di cui era accusata, rispose di sì senza esitare. Appena libera, andò subito a trovare lo zio Ján, che in quel momento era rinchiuso nel carcere di Valdice.
Nel 1961 Alžbeta sposò Ján Bílek, con cui avrà tre figlie. Non ricorda particolari persecuzioni dopo la liberazione, ma il suo racconto alle ragazzine della scuola media di Kežmarok che l’hanno incontrata si chiude con un aneddoto che mette l’ultima parola alla sua storia personale di resistenza al regime comunista e fedeltà ai propri ideali. Si tratta di un ricordo relativo al periodo in cui Alžbeta lavorava come controllore sui tram, dopo la caduta del regime. “Ricordo che a una fermata vidi salire sul treno un signore che conoscevo. Era uno dei dirigenti della polizia segreta [che mi avevano interrogata]. Mi avvicinai per controllare il biglietto, e lui mi chiese se potesse acquistarlo da me. Gli risposi di no, che non gli avrei dato nessun biglietto… che gli avrei permesso di viaggiare gratis. E a quel punto lui iniziò a scusarsi con me […] Sono stata davvero felice di aver avuto l’opportunità di perdonarlo”.
È una storia semplice, quella di Alžbeta Bíleková Košalová. Una ragazzina che non ha esitato ad aiutare lo zio, perseguitato dal regime, difendendo la propria dignità di cittadina libera e di cristiana sempre pronta ad aiutare e a perdonare. La sua è una vittoria forse poco appariscente e troppo silenziosa per essere notata come meriterebbe; grazie all’impegno di due ragazzine, anch’esse a loro modo intrepide, anche noi oggi possiamo gioire di questa vittoria.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.