Lo scorso 14 dicembre Papa Francesco ha firmato i decreti che sanciscono l’elevazione agli altari di otto nuovi beati. Sei di loro sono martiri di nazifascismo e comunismo. Tra di essi lo slovacco Ján Havlík: la sua storia è stata anche raccontata nel 2021 da una giovane studentessa nell’ambito del progetto “Eroi Silenziosi” di cui abbiamo già scritto su queste pagine.
Janko, come tuttora viene affettuosamente chiamato negli ambienti cattolici slovacchi e nella sua regione di origine, nasce nel villaggio di Vlčkovany (oggi Dubovce) il 12 febbraio 1928. Per Karol e Justina si tratta del primo di quattro figli. La famiglia è in condizioni di estrema povertà e il piccolo Janko sarà costretto a fare notevoli sacrifici fin dall’infanzia per poter andare a scuola, dovendo camminare per sedici chilometri ogni giorno per poterla raggiungere e tornare a casa.
Da ragazzino, Havlík era tutt’altro che un cristiano modello: le biografie ufficiali ce lo raccontano come molto esuberante e poco disciplinato, al punto che la madre è spesso costretta a redarguirlo e castigarlo severamente. Ma con il passare del tempo un’altra figura chiave all’interno della famiglia avrebbe esercitato un’influenza decisiva sul giovane Janko: la zia Angela, che avrebbe poi preso i voti come suor Modesta. Il suo esempio concreto mette il seme della vocazione sacerdotale nell’anima di Ján Havlík.
L’adolescenza, i Vincenziani, l’avvento del comunismo
È il 1943 quando Janko, quindicenne, decide di trasferirsi a Banská Bystrica, nella Slovacchia centrale, nella scuola apostolica della Congregazione della Missione di San Vincenzo de’ Paoli. La scuola viene temporaneamente spostata a Trnava nel 1944, a causa dello scoppio dell’insurrezione nazionale slovacca in agosto, per poi tornare a Banská Bystrica alla fine della guerra. Janko Havlík è un adolescente deciso a diventare sacerdote e seguire l’esempio dei padri Vincenziani con cui studia: è determinato a diventare missionario come loro.
Nel 1948 il colpo di stato comunista complica però le cose, non solo per il percorso formativo di Janko (che conseguirà la maturità l’anno dopo), ma per tutta la Chiesa cattolica, che viene considerata nemica del popolo e come tale combattuta ferocemente dal regime.
La persecuzione comunista
Il 1949 è l’anno in cui il regime comunista aumenta gli sforzi per distruggere la struttura delle Chiese cristiane della Cecoslovacchia. In particolare la Chiesa cattolica, vista come reazionaria e sottomessa alle potenze capitaliste in quanto obbediente al Vaticano. Il tentativo fallito di creare una Chiesa di Stato, tramite la cosiddetta “Azione Cattolica” nel 1949, convince il regime a mettere in atto una vera e propria liquidazione degli ordini religiosi nel 1950, tramite le cosiddette Akcia K e Akcia R (rispettivamente la liquidazione degli ordini maschili e femminili). I Vincenziani vengono colpiti con la seconda ondata della Akcia K, nella notte tra il 3 e il 4 maggio 1950. Janko Havlík, insieme ai compagni di noviziato, fa la sua prima esperienza di deportazione, rieducazione comunista, e infine di lavori forzati nella costruzione della centrale idroelettrica di Nosice nel nord della Slovacchia. Nel giro di tre mesi la giostra rieducativa si ferma, e considerato a tutti gli effetti liquidato l’ordine dei Vincenziani, il regime rimanda tutti a casa.
Il noviziato clandestino, l’arresto, il processo farsa
Le autorità portano tutti i seminari del Paese sotto il controllo dello Stato, ma per Janko e i suoi confratelli si apre una nuova possibilità. Padre Štefan Krištín, uno dei Vincenziani della vecchia scuola, crea un seminario clandestino a Nitra. Il rischio è altissimo, in un momento storico in cui vengono costruiti i grandi processi farsa contro i cosiddetti “vescovi traditori”, e in cui sacerdoti, suore e laici vengono arrestati per la propria fede. I corsi al seminario di padre Štefan sono serali, permettendo agli allievi di mantenere le apparenze lavorando durante il giorno.
Il 28 ottobre 1951, però, la polizia segreta fa irruzione nella casa e arresta tutti, compreso padre Štefan. I vincenziani passano quindici mesi di prigionia pieni di violenza e torture.
Il processo si celebra finalmente a Nitra tra il 3 e il 5 febbraio 1953. L’istituzione del seminario clandestino viene considerata “alto tradimento finalizzato al rovesciamento del nostro sistema di democrazia popolare”. Una suora vincenziana presente in aula riferirà sul coraggio ed eroismo di Ján Havlík, che chiede di farsi carico della pena anche dei suoi confratelli, rispondendo senza paura alle provocazioni dell’accusa. La sentenza è esemplare: quattordici anni di reclusione, poi ridotti a dieci in appello. Janko è quindi un MUkL (muž určený k likvidácii, uomo destinato all’eliminazione), ma si rivolge così alla madre: “Non piangete, mamma. Volevamo offrire a Dio il sacrificio dell’altare, ma ora invece del Santissimo offriremo le nostre sofferenze e le nostre vite”.
Il senso della missione e la seconda condanna
Havlík viene spedito nel terribile complesso di campi di lavoro di Jáchymov, in cui i MUkL estraggono l’uranio senza alcuna protezione: il regime lo regalerà agli “amici e fratelli” dell’Unione Sovietica. L’atmosfera nel campo è pesantissima e il rischio di incappare in qualche delatore sempre alto, ma Janko ha le idee chiare. Come confida all’amico Anton Srholec, che ne scrive nel suo libro di memorie Svetlo z hlbín jáchymovských lagrov (Una luce dal profondo dei lager di Jáchymov): “Mi sento come in missione. Del resto, nessun missionario potrebbe aspirare a un posto migliore o più stimolante di questo!”.
Janko è instancabile nell’offrire ogni aiuto possibile, sia materiale che spirituale, ai compagni di prigionia. Questo però porta i suoi aguzzini a maltrattarlo continuamente. Picchiato e rinchiuso in isolamento, costretto ai lavori peggiori, interrogato brutalmente a qualsiasi ora del giorno e della notte. Gli amici soffrono per lui, e gli chiedono di provare ad essere meno intransigente e più flessibile nel suo “essere missionario”. Ma per Ján Havlík la testimonianza della carità cristiana non può ammettere compromessi.
A causa di questa perseveranza, ed è un caso più unico che raro, Ján Havlík viene ulteriormente accusato di crimini contro lo Stato mentre ancora si trova prigioniero del regime. Trasferito in uno dei campi del complesso di Příbram, infatti, Janko aveva iniziato a copiare e tradurre testi religiosi e filosofici banditi dal regime, come ad esempio Umanesimo Integrale di Jacques Maritain, tradotto direttamente dal francese. È solo questione di tempo prima che arrivi la delazione, e nel 1959 la conseguente condanna: l’attività missionaria di questo giovane seminarista non è compatibile con l’idea di “libertà religiosa” sancita dalla costituzione cecoslovacca. Ján Havlík è condannato a un ulteriore anno di reclusione.
Una fede incrollabile
L’ultimo periodo di prigionia è il più difficile. Soprattutto nel 1958, come ricorda lo stesso Ján nelle sue memorie, le torture anche psicologiche subite nella prigione di Ruzyn a Praga sembrano mettere a dura prova la sua fede fino a quel momento incrollabile. Janko vive una vera e propria esperienza di “notte oscura dell’anima”, e ne esce solo grazie all’affidamento alla Divina Provvidenza.
Lo stato di salute di Ján quando viene scarcerato il 23 ottobre 1962 è estremamente precario: debilitato da undici anni di torture fisiche e psichiche, il 34enne seminarista mai ordinato, missionario nell’oscurità delle prigioni comuniste, viene in tutta fretta preso dalla cella, vestito e abbandonato fuori dai cancelli della prigione di Valdice. Ma non considera finita la sua opera missionaria e si tuffa nel lavoro di traduzione di testi religiosi dal tedesco e dall’italiano. Janko trova anche il tempo per scrivere un libro di preghiere basato sulle stazioni della Via Crucis, in cui immagina un bambino che accompagna Cristo al Golgota. Non è difficile leggere tra le righe l’intento missionario che lo stesso Ján aveva fatto suo negli anni di prigionia.
Martirio ed eredità spirituale
È il 27 dicembre 1965, San Giovanni Evangelista e suo onomastico, quando Ján muore per le strade di Skalica. Non ha ancora compiuto 38 anni. Nelle ultime settimane ha percepito sempre più chiaramente il valore del proprio sacrificio, come si capisce dai suoi scritti: “Oggi, altare del sacrificio è il mio letto di invalido e il mio corpo in disfacimento”.
Quasi cinquantotto anni dopo, la Chiesa ne riconosce la figura straordinaria di martire della fede e dichiara Ján Havlík beato. Lo fa in un momento di forti divisioni, in cui appare sempre più evidente quanto serva una rilettura del concetto di “missione”. Oggi che alla Chiesa serve il coraggio di riconoscere la necessità di farsi missionaria, prima di tutto al proprio interno, l’esempio di Janko Havlík è provvidenziale. Questo giovane seminarista avrebbe potuto lamentarsi per tutto quanto il regime comunista gli tolse, fino all’ultimo istante della sua esistenza terrena; Janko ha invece riconosciuto e accettato l’occasione missionaria nella realtà in cui si è trovato suo malgrado.
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