La Lettera di Aristea è il primo testo che racconta la storia di uno dei capitoli più straordinari della storia della traduzione: la versione in greco del Pentateuco conosciuta come Septuaginta. Si tratta di un testo del principio del II secolo a.C. il cui autore è un ebreo appartenente al giudaismo ellenistico. Conosciamo il testo della Lettera grazie a una ventina di manoscritti redatti fra l’XI e il XVI secolo, ma è giunto anche parafrasato e citato in altri testi da Filone d’Alessandria fino a Girolamo e Agostino.



La storia è raccontata in prima persona da Aristea, che si presenta come un funzionario del re Tolomeo II Filadelfo (285-247 a.C.) ed è in sintesi quella che segue.

Demetrio Falereo, il bibliotecario reale, informa Tolomeo che la Legge ebraica (dunque il Pentateuco) è degna di essere inclusa nella biblioteca di Alessandria, ma che occorre reperire i manoscritti e tradurli in greco. Il re, compresa la questione, ordina di scrivere una lettera al Sacerdote di Gerusalemme, Eleazaro, chiedendo di scegliere sei saggi per ogni tribù che possano lavorare all’opera di traduzione. Eleazaro risponde favorevolmente e invia una delegazione con 72 traduttori in Egitto. All’arrivo ad Alessandria il re li accoglie con un banchetto in loro onore che dura sette giorni finito il quale Demetrio riunisce i traduttori, li conduce sull’isola di Faro in una casa in riva del mare, dove questi svolgono il lavoro di traduzione in parte individualmente ma confrontando quotidianamente i risultati. La traduzione viene completata in settantadue giorni. Al termine dell’opera Demetrio raccoglie il popolo ebraico nel luogo dove era stata fatta la traduzione e la legge a tutti. Dopo la lettura, i sacerdoti, i più anziani fra i traduttori e i rappresentanti della comunità ebraica proclamano che vista la devozione e la cura con cui era stata condotta la traduzione questa dovesse essere accettata e rimanere così senza modifiche.



Ci sono tre aspetti importanti da sottolineare: il metodo di traduzione, il ruolo dei traduttori e il soggetto che “autorizza” la traduzione.

In primo luogo occorre evidenziare il metodo di traduzione. Infatti le versioni successive della leggenda raccontano una storia diversa. A partire da Filone d’Alessandria i traduttori traducono isolati l’uno dall’altro e dopo 72 giorni le traduzioni miracolosamente coincidono. Una coincidenza che vuole mostrare il fatto che sono state divinamente ispirate e che il compito dei traduttori è stato quello di accogliere questa ispirazione. Nella lettera di Aristea non c’è alcun cenno a questa tradizione. C’è piuttosto un lavoro comune critico-filologico che assomiglia molto al metodo di interpretazione testuale proposto nella Techne grammatike, attribuita a Dionisio Trace (c.a 170-90 a. C.). Aristea, o chi sta per questo pseudonimo, conosceva i metodi e gli obiettivi degli studiosi della Biblioteca che avevano curato i testi dei grandi classici greci. Sapeva che il loro obiettivo era quello di avere un testo accurato, corretto e che la procedura era di confrontare copie diverse. Una traduzione è qualcosa di diverso ma abbastanza simile da far sì che, in una situazione in cui non c’era una tradizione precedente, la scelta non poteva che essere quella di modellare la nuova esperienza offerta dalla traduzione su qualcosa di già noto, creando così un nuovo spazio del sapere che ipotizzava una vera e propria officina di traduzione molto lontana da tutte le prove solitarie che verranno dopo.



Un’officina condotta da dei traduttori che però non sono né delle canne vuote attraverso cui passa lo spirito divino, né dei meri tecnici della lingua, ma dei filosofi. La qualità dei traduttori è un elemento centrale in tutta la Lettera. Demetrio ricorda al re che essi devono essere “uomini, anziani che abbiano vissuto con saggezza esperti nella loro Legge” e seleziona “uomini che eccellevano nell’educazione”. Quando poi i traduttori arrivano ad Alessandria il re, durante le cene, pone delle domande a ciascuno di loro. Qui i traduttori assumono le vesti di sapienti il cui sapere compete e supera quello dei filosofi.

Alla parte riguardante i traduttori e il metodo di traduzione, succede quella che stabilisce chi è il garante della “verità” del testo tradotto, che cioè sia simile al testo d’origine e per questo autorevole. La tradizione successiva ad Aristea risolverà la questione trasformando i traduttori in profeti che, ispirati, scrivono sotto dettatura divina e il miracolo si compie dopo 72 giorni con la perfetta identità delle versioni. In altri termini il garante della buona traduzione è Dio stesso. Invece nella lettera di Aristea sono i traduttori anziani, la comunità e il popolo ad affermare che la traduzione “è stata condotta bene, con pietà e con rigore sotto ogni aspetto” (§ 310). Una modalità che descrive la procedura biblica per designare un documento come ufficiale e vincolante, in altre parole, come Sacra Scrittura. È la comunità dei fedeli nel suo complesso che concede lo status di autenticità e di conseguenza permette che la versione greca possa sostituire la sua fonte ebraica per diventare l’unica Sacra Scrittura della comunità ebraica alessandrina e successivamente di quella cristiana. È importante sottolineare il ruolo della comunità in quanto garante dell’autorevolezza del testo, della sua sacralità. Del resto l’adozione del testo come Sacra Scrittura avviene addirittura prima che il re possa proclamare la verità della traduzione.

Anche per questo il racconto di Aristea è la celebrazione di una impresa intellettuale che ha cambiato il destino di una cultura, permettendo a una religione tutto sommato periferica di avere un orizzonte universale.

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