Nel contesto attuale, segnato tragicamente dal conflitto russo-ucraino, risulta interessante indagare la storia, almeno quella più recente, della Romania e interrogarsi sulle vicende che ne hanno caratterizzato il cammino per buona parte del ventesimo secolo: dal “conservatorismo rurale”, per il quale i diritti umani non esistevano, fino agli anni di Ceaușescu, quando anche l’Occidente, con estrema superficialità, favorì le scelte economiche sconsiderate del regime.
In questa intervista Gabriel Andreescu, professore emerito nella facoltà di scienze politiche ed amministrative dell’Università di Bucarest, ci spiega perché un Paese integrato da oltre quindici anni nell’Unione Europea stenta a tenere il passo con la modernizzazione: ragioni che non afferiscono principalmente al livello politico ed economico (la Romania risulta attualmente diciannovesima nel quadro complessivo delle economie mondiali), ma hanno piuttosto a che fare con la sua storia e la sua cultura.
Professore, come si giustifica il ritardo della Romania nell’orizzonte europeo e mondiale?
Per inquadrare l’attuale contesto rumeno e il complessivo ritardo che ne consegue, va detto anzitutto che intorno agli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, la popolazione rumena era per il 70 per cento una popolazione rurale. Esisteva pertanto una forte asimmetria tra quei raggruppamenti sociali che rappresentavano la stragrande maggioranza dei suoi abitanti e l’élite borghese intellettuale. Tale élite, inizialmente piuttosto esigua, era cresciuta in modo significativo tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo: si trattava di un’élite connessa a quelle tedesca, francese e italiana, tesa dunque a promuovere e favorire legami con l’Europa occidentale e con il suo universo economico e culturale. Basti pensare che la società rumena di allora assunse come modelli ispiratori della propria costituzione e del proprio progetto educativo quelli di Francia e Belgio. Anche per coloro che rivestivano ruoli pubblici veniva quasi sempre preferita la tendenza filoccidentale.
Quale fu allora il ruolo dell’ideologia comunista e dell’Unione Sovietica in quegli anni?
Va ricordato che fu proprio negli anni Trenta e Quaranta che si affermarono, nel cuore dell’Europa, fenomeni come il fascismo e il nazismo; ben presto il nostro continente fu travolto dal secondo conflitto mondiale, al termine del quale l’esercito sovietico rimase in Romania e il Paese si trovò presto schiacciato da un totalitarismo di stampo stalinista. Il Partito comunista tuttavia, almeno inizialmente, fu poco rappresentato: si parla di circa un migliaio di aderenti affiancati alla comunità socialdemocratica. I comunisti erano dunque una presenza piuttosto esigua e nei loro confronti si respirava un’aria di generale antipatia, come pure nei confronti dell’ideologia comunista: non solo l’élite culturale le era ostile, ma anche la quasi totalità della popolazione rumena. Fu però l’Unione Sovietica ad imporre ben presto il comunismo, tanto che la Romania subì quarant’anni di sovietizzazione: una volta distrutta l’élite borghese intellettuale legata all’Occidente e quindi all’Europa, crebbe via via una concezione della società a dir poco devastante. È imputabile soprattutto a questo il fatto che la Romania, per anni, abbia mantenuto un livello di “primitività” chiudendosi in una sorta di conservatorismo rurale dove i diritti dell’uomo praticamente non esistevano; anche quando i comunisti si batterono per la parità di genere – e la loro lotta ebbe di fatto un peso reale –, l’atteggiamento dominante della popolazione rimase conservatore e totalmente vincolato alla tradizione.
Può farci un esempio?
Significativa nel 1948 fu l’acquisizione del diritto di voto alle donne: si trattava in verità di un diritto privo di contenuto poiché la Romania, in quegli anni, non era un Paese democratico. Solo il Partito comunista aveva infatti diritto di parola, tanto che per decenni qualunque forma di libertà o tentativo di esprimerla sono stati sistematicamente annientati. Ecco perché in Romania solo di recente è maturata quella mentalità sociale capace di prendere non solo “posizione contro”, ma di manifestare tale posizione anche apertamente. Il nostro Paese, tuttavia, fa parte ormai a pieno titolo dell’Occidente e questa idea, che da sempre ha dominato la coscienza delle élite, ha contagiato negli anni anche la popolazione.
Quando e in che modo salì al potere Ceausescu?
Premetto che nella realtà rumena, come pure in altri Paesi socialisti controllati dall’Unione Sovietica, si possono distinguere due periodi: 1. quello stalinista, in cui la repressione fu terribile; 2. quello iniziato qualche anno prima della salita al potere di Ceaușescu. Alcune date per aiutare la memoria: Stalin muore nel marzo del ’53 e Ceausescu si insedia nel 1964. Kruscev diventa presidente dell’Unione Sovietica nel 1956 e tra il 1962 e il 1964 i detenuti politici della Romania vengono liberati. Quando nel 1965 Ceaușescu prende stabilmente il potere, si avverte da subito un cambio di rotta: emerge forte, sia da parte del popolo che dello stesso presidente, il desiderio di sottrarsi all’influenza moscovita. Era abitudine di Mosca nominare e sostituire i segretari di partito dei Paesi gravitanti nella sua orbita. Che Ceaușescu sia salito al potere appartiene ad una storia fitta di avvenimenti. Se infatti venne regolarmente eletto dalla direzione del Partito comunista, a nominarlo furono però i “vecchi” comunisti del Comitato centrale: appariva, ai loro occhi, un soggetto facilmente controllabile, ma si sbagliavano! Pur trattandosi di una persona piuttosto grezza che potremmo definire “primitiva”, di scarsa sensibilità e cultura, ben presto si rivelò molto scaltro: assunse in poco tempo la guida dell’intero Partito comunista rumeno e diede vita, successivamente, a pesanti forme di controllo come ad esempio la Securitate, una vera e propria polizia politica. A differenza di Dubcek in Cecoslovacchia, Ceaușescu sembrava seguire la linea comunista, tanto che a Mosca non temevano si discostasse. Egli, invece, per garantirsi un futuro stabile, tentò un’apertura verso l’Occidente tanto che nel 1968, mentre l’Unione Sovietica entrava a Praga con i carri armati, la Romania scelse di non partecipare all’invasione.
Che risonanza ebbe questa scelta in Occidente?
Fu proprio tale opzione ad essere apprezzata sul piano internazionale, consentendo a Ceaușescu di consolidare il suo ruolo nei Paesi democratici; ma la conoscenza del dittatore come pure del Paese e dei suoi successivi sviluppi, si rivelò di fatto superficiale e inadeguata. Ceaușescu mantenne comunque una linea politica più liberale rispetto al periodo attraversato dalla Romania negli anni precedenti: crebbe quindi una certa speranza per il futuro e non solo nelle persone semplici, ma anche tra le personalità politiche occidentali che avevano riposto in Ceaușescu la loro fiducia. Lui stesso era persuaso di soddisfare la vanità dell’Occidente, tanto che giocò la carta di prendere le distanze da Mosca e di sbilanciare apertamente la Romania ad Occidente. Fu in quegli anni che stabilì legami al tempo stesso con gli Arabi e con Israele: si trattò di una situazione davvero unica che quasi gli consentì di fungere da intermediario tra mondo occidentale e Paesi medio-orientali. Il riconoscimento ottenuto nell’area atlantica ebbe come esito quello di alimentare in lui un’eccessiva quanto infondata considerazione di sé. Così, a partire dalla fine degli anni Settanta, crebbe in Ceaușescu la tentazione di ottenere anche all’interno del Paese le medesime gratificazioni acquisite presso le democrazie occidentali. Si andò configurando a quel punto un reale culto della personalità: in parte promosso da lui stesso, in parte favorito da quanti lo circondavano fino ad appoggiarlo. Fu questo a presupporre nuovi standard di sottomissione al dittatore e a corrompere la comunità culturale. Con tali premesse, non tardarono le limitazioni ad ogni forma di libera espressione. L’effetto fu assolutamente distruttivo. Un altro aspetto altrettanto gravido di conseguenze negative riguardò le restrizioni di natura economica. I successi mietuti da Ceaușescu in Occidente favorirono infatti una notevole crescita di investimenti esteri in Romania: offerta di assistenza tecnica e importanti concessioni di crediti presso le banche occidentali. Ciò comportò la realizzazione, in territorio rumeno, di imponenti industrie chimico-metallurgiche di fatto sproporzionate alle reali possibilità del Paese. Questa politica, controllata direttamente da Ceaușescu, si dimostrò una vera e propria follia dal punto di vista economico, specie quando nel 1973 aumentò esponenzialmente il prezzo del petrolio. Fu a quel punto che si profilò la catastrofe economica: lo Stato rumeno avrebbe dovuto, infatti, pagare gli ingenti debiti precedentemente contratti con le banche estere. Ceausescu ebbe la presunzione di volerli saldare seduta stante.
Quali furono le conseguenze di tale irrigidimento?
Seguì un decennio di enormi ristrettezze che pesarono su ogni cittadino: scarseggiavano i generi di prima necessità e si pativa il freddo per la mancanza di riscaldamento. Per anni la comunità rumena subì in silenzio questa condizione disumana. Dovrà arrivare l’inverno del 1989 perché, a metà dicembre, il popolo finalmente insorga e scoppi la rivoluzione. Proprio alla fine degli anni ’80 era maturato infatti un odio viscerale nei confronti di Ceaușescu e della Securitate, strumento privilegiato di controllo del suo onnivoro potere: fu soprattutto nei loro riguardi che si scatenò la rivolta della popolazione.
(Giulia Sponza)
(1 – continua)
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