L’avanzata della modernità è strettamente connessa alla crescita della globalizzazione. Il suo aspetto forse più clamoroso ha riguardato l’organizzazione dello spazio economico, che sembrava evolvere, almeno fino a un recente passato, nel senso della creazione di un’unica grande area di interdipendenze, fondata sull’egemonia di un modello vincente: quello dell’Occidente euro-americano.
Ma un’egemonia su base economica non può stare in piedi da sola. Per affermarsi, deve piegare a proprio vantaggio gli strumenti della politica, e soprattutto trascina con sé una sempre più forte capacità di incidenza sulle forme dell’esistenza sociale. La vittoria della globalizzazione occidentale è rimasta, proprio per questo, imperfetta, segnata da ferite e lacune che hanno dato evidenza anche ai punti deboli di un tipo di sviluppo degli equilibri mondiali ben lontano dall’essersi dispiegato pienamente e in modo ugualmente felice in tutte le aree del pianeta.
Comunque stiano oggi le cose, quello che va sottolineato è che un tale genere di “globalismo” produce inevitabilmente una spinta verso la centralizzazione degli apparati direttivi delle società umane, con la compressione delle differenze, delle variabili locali, insieme a un forte livellamento degli stili di pensiero e dei quadri della cultura. Più si rafforza la capacità di attrazione dei centri dominanti, più i margini periferici perdono vitalità, si riducono a territorio di conquista e vedono depauperata loro identità specifica. Tutto rischia di diventare la semplice estensione del centro colonizzatore.
Se si accetta questa ottica di lettura, il rapporto tra tendenze alla uniformazione e capacità di resistenza delle identità locali rischia di finire riassorbito pressoché totalmente nella dura alternativa del conflitto: il predominio dei fattori di asservimento sarebbe così l’anticamera dell’inglobamento integrale dello spazio planetario, con un unico vincitore riconosciuto (o detentore se non altro dell’ambizione di essere riconosciuto come tale). Si dovrebbe immaginare che tra “globale” e “locale” ci possa essere solo una dialettica insanabile. Ma già il fatto di parlare di “dialettica”, senza troppi sottintesi, lascia intuire che dentro ogni conflitto non vi è solo il respingimento ostile: vi sono inclusi anche l’attrazione tra poli diversi messi in tensione tra loro, la necessità di immergersi in un confronto reciproco che poi genera contaminazione, bilanciamento obbligato degli opposti, dialogo e negoziazione anche tra i due fronti nemici lungo una barriera di collisione.
La storia più recente ha mostrato tutta la complessità dei processi di globalizzazione, scatenando al loro interno una competizione diventata ormai violentemente aggressiva tra i diversi centri che si fronteggiano nell’imporre la loro supremazia alla testa dello sviluppo mondiale: non c’è più un unico centro, o un’unica area di dominio, capace di fagocitare in sé tutto il resto. La dialettica è sempre più interna alla globalizzazione in sé considerata, che ha cessato di apparire come un processo lineare, a senso unico, con un fine già chiaramente definito che si tratta semplicemente di raggiungere con una serie di sforzi di avvicinamento.
Inoltre ‒ secondo aspetto decisivo da tenere presente ‒ bisogna prendere atto che la creazione di grandi catene di subordinazione tendenzialmente unificante della vita sociale, di segno universalista, che amalgamano e rifondono in sé molteplici realtà locali più ristrette prima dotate di maggiore autonomia, non produce unicamente un soffocamento brutalmente assimilatore, imperialista, che non lascia spazio a nessuna alternativa. Nella realtà oggettiva del passato non è stato così, o almeno non sempre è stato così. L’inglobamento universalista crea anche reti di interscambio e spalancamento degli orizzonti: non uccide necessariamente la varietà di ciò che è specifico, locale, caratterizzato in senso identitario. Tra egemonia centralista e immersione nella vitalità organica degli spazi “particolari” non c’è solo guerra. L’attrazione del centro può suscitare una più o meno fiera volontà di resistenza. Accende la capacità di reazione: offre l’accesso a nuove risorse, spinge il “locale” a ridefinire la propria fisionomia dentro un contesto cambiato. Non ci sono solo le “dialettiche”, insomma, ma anche gli “intrecci”, che vanno tenuti nel debito conto se si vuole abbracciare in tutta la ricchezza delle sue articolazioni il panorama attuale.
La storia della cristianità occidentale degli ultimi secoli è un banco di prova privilegiato per ripensare criticamente gli schemi oppositivi del dualismo centro/periferia. Per molti studiosi della modernità religiosa, il cattolicesimo è stato il teatro di una massiccia universalizzazione centralista, sotto il primato crescente di Roma, che ha finito con l’erodere progressivamente e ha svuotato dall’interno la varietà delle tradizioni locali, dei riti liturgici, delle forme di espressione del culto, delle logiche organizzative della presenza dei soggetti religiosi nel contesto sociale.
Ma ci sono altre correnti storiografiche che hanno messo in rilievo la forza creativa mantenuta, nonostante tutto, dalle realtà locali, dalle spinte dal basso, dagli elementi di autonoma elaborazione delle novità, che sono state capaci di far sentire la loro voce e hanno trovato la strada per inserirsi nei crocevia dell’universalità, contribuendo a rimodellarne i profili. La nascita dei grandi ordini religiosi dell’età moderna, l’affermazione dei nuovi modelli di santità, la riscoperta del valore dell’elemento carismatico a fianco di quello puramente “istituzionale”, pilotato e governato dall’alto dentro una griglia di poteri strutturati, sono tutti esempi di questa capacità di “universalizzazione del particolare” che non è mai venuta meno, neanche dagli inizi del mondo moderno in poi.
E poi c’è il rovescio della medaglia: l’universale non ha coinciso sempre e soltanto con l’imposizione autoritaria distruttiva, ma ha contenuto in sé la proposta di messaggi, modelli, condotte pratiche, spunti culturali, che hanno agito come fattore di stimolo, si sono impiantati nelle realtà locali e sono diventati strumenti di appoggio per l’elaborazione in un senso corretto, su strade originali, delle identità settoriali, particolariste, radicate nei singoli contesti locali. C’è stata anche la “particolarizzazione dell’universale”.
In questo scenario, la vicenda della congregazione religiosa di punta della Chiesa cattolica degli ultimi secoli si presenta come un esempio paradigmatico. Lo spalancamento alle prospettive planetarie ha generato, nella scia del magistero spirituale di Ignazio, una straordinaria propensione alla mobilità in funzione del servizio apostolico, unita alla ricerca spasmodica del coinvolgimento personale per la propagazione missionaria fin nei contesti più lontani e inospitali. Lo documenta con grande efficacia la parabola ricostruita nel recente volume di Emanuele Colombo, su un arco storico che arriva fino agli anni sessanta del Novecento (fino alla giovinezza di papa Francesco: Quando Dio chiama. I gesuiti e le missioni nelle Indie, Il Mulino, 2023).
Ma è fuori di ogni dubbio che il respiro universalista dei gesuiti di ogni tempo ha potuto alimentarsi, senza contraddizioni né rotture, con il loro profondo innesto nelle realtà particolari da cui provenivano e in cui si erano formati: vi si dedicavano spendendo tutte le loro energie di educatori e maestri di vita cristiana, si identificavano con i loro bisogni e le loro culture, e da qui traevano la ricchezza di un patrimonio di fede e di verità che non potevano custodire gelosamente per sé, bensì era da condividere senza risparmio, in una dilatazione del cuore, della sensibilità e dell’intelligenza potenzialmente senza confini.
In estremo Oriente si potevano vestire da mandarini e davano alle Madonne dipinte gli occhi a mandorla. In Sudamerica si fecero tutt’uno con gli indios del Paraguay. Nel mondo intero esportarono la tradizione umanistica della paideia cristiana e la sua musica. Ma ricercarono anche il dialogo con le tradizioni autoctone e si fecero paladini della difesa dei diritti di ogni essere umano, compresi i più poveri e meno fortunati. Costruirono una nuova forma di incarnazione del cristianesimo, a partire dal loro angolo ben circoscritto di azione.
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