Nel 2024 saranno trecento anni dalla nascita di Immanuel Kant e, per l’occasione, nella Federazione Russa si era fatto il suo nome per l’aeroporto di Kaliningrad, l’antica Königsberg, dove il filosofo era nato, appunto, nel 1724. Poi, però, si è deciso diversamente e sull’onda del nazionalismo imperante si è deciso di dedicare l’aeroporto alla zarina Elisabetta, durante il cui regno la città baltica fu per qualche anno sotto il dominio russo. Era un’altra Russia, peraltro, per cui la Prussia era un modello e, difatti, Kant continuò a insegnarvi, in tedesco, forse anche elaborando le prime intuizioni di quello che sarebbe divenuto, molti anni più tardi, il trattato Zum ewigen Frieden (“Sulla pace perpetua”).
In effetti, di guerre e di paci il Baltico ne aveva viste molte, ma nessuna lasciò quell’area d’Europa, al confine tra mondo slavo e mondo germanico, tanto sconvolta quanto gli eventi alla fine della seconda guerra mondiale.
Si legge che nel 1945, a Potsdam, a guerra ormai conclusa in Europa e con i sovietici che avevano occupato gli antichi territori prussiani e controllavano il Baltico meridionale, a Churchill che gli domandava come pensava di annettere e governare dieci milioni di tedeschi del Baltico, Stalin avesse risposto: “Quali tedeschi? Lì non ci sono più tedeschi…”. Quasi ad abbozzare una contrapposizione tra tolleranza britannica e crudeltà russo–mongolica alle soglie della guerra fredda, mentre, le cose, in realtà, stanno diversamente.
Un anno prima, infatti, nel dicembre 1944, il premier britannico in un suo discorso alla camera bassa aveva dato per scontato che la via della pace passasse per l’eliminazione dei conflitti etnici, attraverso il trasferimento forzato delle minoranze etniche (che, per lo più, a livello regionale erano in realtà assolute maggioranze) dai territori destinati alla Polonia e all’Unione Sovietica dopo la conclusione del conflitto. Si trattava, in pratica, della giustificazione di quella che, oggi, chiamiamo “pulizia etnica”: non esattamente, quindi, la pace che Kant auspicava nel celebre e citato trattato.
Tra le città simbolo di questi “trasferimenti” spiccano certamente le terre baltiche della Prussia occidentale e orientale e, soprattutto, l’antica Königsberg, il “monte del Re”, fondata dai cavalieri teutonici nel 1255 e così denominata in onore di Ottocaro II di Boemia, per lungo tempo capitale della Prussia orientale. All’inizio della seconda guerra mondiale Königsberg aveva circa 350mila di abitanti, di lingua e nazionalità tedesca. Durante la prima fase della guerra la posizione della città nell’estremo est del Reich l’aveva relativamente protetta, ma, a partire dal 1944, una serie di bombardamenti britannici l’avevano ridotta in cenere. Venne poi l’assedio sovietico. Per ordine esplicito del Führer, la città fu dichiarata “fortezza” e vennero distribuite armi ai civili, il cosiddetto “Volkssturm”, ragazzini e anziani, mandati a morire in massa contro l’Armata rossa. La “fortezza” capitolò nell’aprile 1945: seguirono massacri, stupri di massa, deportazioni e migliaia di morti per fame, così da arrivare allo spopolamento della città e della regione, che era, poi, l’obiettivo di Stalin.
I circa 100mila civili di nazionalità tedesca ancora presenti al momento della capitolazione, tre mesi dopo erano ridotti a poco meno di un quarto. La chiesa evangelica conserva la memoria degli ultimi pastori, che avevano scelto di rimanere, e che finirono assassinati o lasciati morire di fame insieme con i pochi tedeschi rimasti tra le rovine della città. I sopravvissuti furono, poi, deportati nella Ddr, i più fortunati, o in Siberia, tranne qualche decina di “tecnici”, di cui i sovietici necessitavano per rimettere in funzione, a modo loro, la città, via via ripopolata con “immigrati” russi dall’immenso entroterra sovietico, ma anche bielorussi e ucraini. La Prussia orientale fu divisa tra Polonia e Urss (poi Russia e Lituania), con la sua parte settentrionale trasformata in area militare esclusiva e tale rimasta sino al 1991 e un confine a sud ovest, verso la Polonia, che pare tracciato con la squadra.
Durante il periodo sovietico l’obiettivo esplicito fu la cancellazione della stessa memoria dell’antica città prussiana. Così scriveva sulla Rheinische Post Egbert Hoffman il 12 agosto 1967, uno dei pochi giornalisti occidentali ammessi a Kaliningrad in piena epoca sovietica: “Scrittura e lingua tedesca a Königsberg, come in tutto il sud della Prussia orientale, sono stati completamente cancellati. Solo sul monumento a Schiller si legge ancora il nome ‘Schiller’, ma in caratteri cirillici. Le rovine del castello, annerite dall’incendio e dalle distruzioni della guerra, sono lì, immobili. Il parco intorno al castello è pieno di sterpaglia. Dalla stazione i treni viaggiano verso Riga, Vilnius, Minsk, ovviamente su binari a scartamento russo. Nei cimiteri le lapidi con iscrizioni in tedesco sono state distrutte o grattate, le rovine delle chiese fatte saltare per aria. Le poche chiese rimaste sono state trasformate in magazzini. Dio è stato cacciato da Könisgberg”. Qualche anno dopo, Breznev diede ordine di far saltare anche ciò che rimaneva del castello che ne era il simbolo storico. Quel che ancor oggi si può vedere delle poche rovine sopravvissute, tra cui la cattedrale, con la tomba di Kant, furono restaurate dopo il 1991, per lo più grazie al sostegno finanziario dei profughi e dei loro discendenti trasferitisi in Germania.
L’odio sovietico nei confronti delle rovine sopravvissute alle distruzioni della guerra era lo specchio della volontà di cancellare un’eredità giudicata “prussiana e borghese” e di costruire l’uomo nuovo, rappresentato dai soliti e tristemente noti palazzoni comunisti e dal quel nome “Kaliningrad”, che ricordava uno dei servi più ossequiosi e muti del compagno Stalin. Era l’odio contro una grande capitale della cultura europea, dove, al limite, poteva sopravvivere solo la lapide funebre di Immanuel Kant, perché senza di lui non ci sarebbero stati l’idealismo tedesco ed Hegel, e senza Hegel non ci sarebbe stato Marx, e senza Marx non ci sarebbero stati – forse – Lenin e Stalin. A guerra finita, i sovietici non si limitarono a trucidare ed espellere i pochi sopravvissuti di nazionalità tedesca, ma arrivarono a spianare monumenti e cimiteri: nulla doveva ricordare quei sette secoli di storia. Si salvò, appunto, solo la tomba di Kant; sembra per volontà di Stalin.
Ma Königberg non era solo la città di Kant. Lì erano passati e avevano insegnato e lavorato Johann Gottlieb Herder, Heinrich Von Kleist, E.T.A. Hoffmanns, Hannah Arendt; lì erano iniziate la guerra di liberazione contro l’occupazione napoleonica, la reazione culturale alla Rivoluzione francese, la grande rinascita classico–romantica. Lì, proprio Herder, che vi aveva studiato ed era stato allievo di Immanuel Kant, fu chiamato a insegnare presso il prestigioso collegio evangelico della cattedrale e conobbe gli eventi legati all’invasione russa (una delle tante).
In questo ruolo assistette all’incendio della città, che lo ispirò nella composizione del suo Lamento per le ceneri di Kœnigsberg: “E vidi! Il veggente trema a pronunciarlo / Notte è ancora il suo occhio / C’è popolo intorno a me / Lo sento e ulula il lamento delle rovine / si piega e si fa cenere./ Un volto al tempo del sabbatico silenzio / io vidi, rapito lo sguardo rovesciato, / Vidi nella coltre di nubi di Abbadon, / La spada di fuoco nella mano”. Come già Vico, anche Herder, contro Voltaire, Rousseau e l’omologante universalismo illuminista, credeva che la cultura e la civiltà fossero plurali e venissero dal radicamento nella propria terra. Abbadon: nel libro dell’Apocalisse è un angelo, ma nell’Antico Testamento, o meglio, nella Tanakh, indica la distruzione (“l’Abisso”), particolare che non poteva sfuggire al filosofo esegeta (autore, tra l’altro, di un saggio Sullo spirito della poesia ebraica). A essere in fiamme era un’intera civiltà, perché la pace non si ottiene – ricorda sempre Herder richiamandosi a Kant – imponendo la propria visione del mondo con con la forza. Del resto, lo stesso scritto di Kant Zum ewigen Frieden è stato spesso frainteso. Kant, infatti, rifiuta l’idea di una pace “a qualunque prezzo”, edificata “sul cimitero della libertà” e la “tomba di un dominio unico” imposto da un conquistatore universale. Più che un “pacifista” moderno Kant – in fondo all’anima rimasto un cristiano evangelico – (e con lui Herder) è, come si è scritto, un “avvocato della pace”.
La trasformazione di Königsberg in Kaliningrad è simbolo di ciò che non dovrebbe essere la pace, il simbolo tragico dell’Europa travolta dalle ideologie che pretendevano di unificare e cambiare il mondo – a modo loro; è la pietra tombale di una storia gloriosa ridotta a piattaforma missilistico–nucleare pronta a colpire le capitali europee. È una tomba che oggi torna a fare paura, da cui si leva il soffio distruttore dell’Abbadon biblico.
Alla fine, Könisgberg–Kaliningrad ci ricorda in qualche modo uno dei messaggi del De civitate Dei di sant’Agostino: nessuna entità umana, nessuna realtà statuale può dire di se stessa di essere per sempre. C’è un’hybris irrazionale nell’ “una e indivisibile” delle forme statuali moderne, nella pretesa permanenza di ciò che è per definizione transitorio, come lo è qualunque delle tante città degli uomini: solo la città di Dio è eterna e all’eterno appartiene.
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