La “Regina di maggio” che emerge dalle pagine della biografia di Luciano Regolo, Maria José. Regina indomita (Ares, 2022) è una donna troppo, troppo  moderna, per i suoi tempi. L’ampio volume, corredato da un invito alla lettura di Maria Beatrice di Savoia, dalla prefazione di Francesco Perfetti e dalla postfazione di Donatella Bolech Cecchi, offre il ritratto di una donna che, nella sua lunga esistenza (nata nel 1906 a Ostenda, in Belgio, morì in Svizzera nel 2001), ha attraversato tante vite diverse.



E il volume queste età le rievoca tutte nel dettaglio, a partire dall’infanzia, definita Gli anni felici del “leoncino” di Laeken (leoncino per la criniera di capelli ricci), sino al tempo della formazione al collegio fiorentino di Poggio Imperiale, per arrivare al matrimonio con il futuro Umberto II – anche se Regolo analizza con molta acribia i retroscena di quell’unione (Capitolo IV. Maintenant, c’est fait. Un sogno d’amore e le sue verità nascoste) –, e poi agli anni della guerra e quelli dell’esilio, della vecchiaia in Messico e, infine, del ritorno in Svizzera, quando Maria José coltivò la passione per la storia e la scrittura.



Umberto parlò sempre con grande stima e affetto di Maria José, ma, dall’unione con quel compagno di vita che le era stato destinato fin da quando era undicenne, la “Regina di maggio” ricevette, se volessimo fare un bilancio, più amarezze che gioie, vuoi per il contesto politico dell’Italia fascista, vuoi per la natura introversa e tormentata del marito, vuoi per le consuetudini della famiglia Savoia, dove, si diceva, “si regna uno per volta”. Suo malgrado, il Principe non poté renderla felice, e, giorno dopo giorno, si infranse l’aspettativa di quell’attrazione, coltivata fin da quando la regina era bambina.



Eppure, come emerge dalle pagine di Regolo, il principe di Piemonte restò l’unico grande amore della sua vita: sconfitta dagli eventi storici, e da una quotidianità così diversa da quella che aveva sognato, Maria José non aveva comunque mai smesso di sentirsi legata a quell’uomo che, per sensibilità, per cultura e per valori di fondo, incarnava veramente il suo ideale. Può darsi che l’affetto, la stima, la complicità intellettuale e la solidarietà che fino all’ultimo Maria José serbò per Umberto fossero state il ripiego di una passione inespressa, o compromessa. La regina, tuttavia, anche negli anni successivi alla scomparsa del consorte, non tradì mai alcun risentimento nei suoi confronti, e non lo incolpava né delle sue sofferenze né delle tragedie vissute dall’Italia dopo il 10 giugno 1940.

“Quando ripenso al passato ho la sensazione di non essere mai stata completamente felice. Mi sembra che in ogni momento della mia vita ci sia stata un’ombra a offuscare la mia serenità”, dirà Maria José, nel 1994, all’autore del volume, escludendo da quella cappa grigia solo gli anni dell’infanzia.

Una volta sposata, Maria José fu vicina alla suocera, la regina Elena: pur se così diverse, le due donne avevano un tratto comune, l’animo profondamente retto, nonostante il carattere della principessa, indipendente, impulsiva, financo caparbia. Certo, non ci furono mai scenate, o battibecchi clamorosi, ma le consuetudini di Casa Savoia, in cui la sincerità veniva spesso sacrificata all’obbedienza, fecero più volte sentire Maria José un pesce fuor d’acqua. La consorte del padre di Umberto II, Vittorio Emanuele III, la regina Elena, in questa famiglia, era un personaggio di cui la “Regina di maggio” ricorderà spesso la bontà, la sollecitudine nei confronti dei bisognosi – andò di persona, per esempio, a portare soccorso ai terremotati di Messina nel 1908 –, e la semplicità di maniere.

Nella ricca aneddotica tramandata a proposito della giovinezza di Vittorio Emanuele III c’è un episodio significativo: un giorno, la madre, la regina Margherita, gli propose una passeggiata a Villa Borghese, senza scorta, per non essere riconosciuti, ma questi rifiutò, dicendo: “Non è il caso: un naso (quello della sovrana era piuttosto aquilino) e un nano a spasso richiamerebbero comunque la curiosità della gente”. Solo nell’intimità con Elena, da lui chiamata affettuosamente mammy, il Re Soldato riuscì a esorcizzare i contraccolpi di un’infanzia dura. Il suocero, invece, con Maria José era cortese, ma distaccato: memorabile la visita che organizzò per mostrare alla nuora la sua fantastica collezione di monete (pochi sanno che Vittorio Emanuele III era stato un appassionato e competentissimo numismatico). “Sembrava di ascoltare la lettura di un libro”, ricorderà Maria José, “Non mi disse neppure una parola affettuosa, non fece mai una pausa. Parlò per ore di date e di antiquari. Anche dopo, negli anni, siamo rimasti due perfetti estranei” (p. 232). In questa famiglia, la bontà e la semplicità della Regina Margherita spiccavano, ma erano forse un po’ poco per una ragazza indipendente, amante dello sport, troppo moderna per quel tempo e per quel ruolo.

Quella che, fin dagli anni Trenta, venne scambiata per freddezza, era in realtà timidezza, una sorta di disagio che in Maria José si accentuava quando intuiva che, da parte dell’interlocutore, non c’era genuinità. Anche da anziana la irritavano inchini, baciamani, appellativi regi e formalismi, se denunciavano una deferenza tutta fine a se stessa, in cui non aveva mai creduto. Le dispiaceva piuttosto che fossero misconosciute quelle caratteristiche che davvero per lei hanno contato e che questa lunga e appassionante biografia sottolinea in ogni pagina: l’indipendenza, difesa e reclamata ogni giorno, e la dignità, al di sopra di ogni interesse contingente.

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