Nel dibattito dell’alta cultura del Cinquecento europeo era abituale, come abbiamo visto, che il desiderio della pace interna si combinasse, senza apparente contraddizione, con gli appelli a riunire tutte le forze disponibili sotto le bandiere della fede comune, allo scopo di organizzare un contrattacco decisivo in direzione del nemico che premeva sui bastioni di confine. Ma l’incitamento al combattimento per l’autodifesa andava in controtendenza rispetto al sempre più accentuato particolarismo delle singole entità politiche locali in cui si era frammentato l’universo dell’Occidente cristiano. Ne uscivano enfatizzati una litigiosità endemica e sospetti reciproci che intralciavano qualunque concertazione d’insieme sul piano di una reazione armata congiunta, finalizzata al ribaltamento delle posizioni occupate. Anzi, in senso ben diverso, le contrapposizioni che si erano create finivano con lo spingere alcune fra le potenze di primo piano, in particolare la Francia e Venezia, a trescare dietro le quinte per assicurarsi l’alleggerimento della minaccia ottomana sui propri domini e fare della Sublime Porta, all’insegna della più smaliziata Realpolitik, una spalla di sostegno sullo scacchiere delle relazioni tra gli Stati nell’ambito continentale, piegata a proprio esclusivo vantaggio.



Dopo il disastro della vittoria turca a Mohács nel 1526, con l’occupazione di una parte rilevante del regno magiaro-slavo di Ungheria e Croazia, cui seguirono la spedizione su Buda e il fallito primo assedio alla Vienna degli Asburgo nel 1529, le considerazioni degli uomini di cultura come Erasmo e Jacopo Sadoleto si spostarono in termini più stringenti dal terreno delle strategie diplomatico-militari verso quello dell’esortazione edificante e della meditazione di accorato respiro teologico. Anche per Sadoleto la disfatta degli ungheresi assunse le tinte cupe del castigo inflitto dal cielo a motivo delle esacerbate divisioni fra gli Stati di fede cristiana, che reclamava, per non trasformarsi nel precipizio di una rovina totale, di essere riscattato con il ritorno concorde all’obbedienza della legge divina: “Siamo dunque davanti – ha commentato in proposito Samuele Giombi – alla ben nota interpretazione del Turco come flagello di Dio e punizione salutare per i cristiani che si [era] già incontrata nella letteratura quattrocentesca successiva alla presa di Costantinopoli e alla guerra otrantina, ma che si estende anche alla letteratura inquisitoriale di fine secolo, per poi riflettersi ampiamente nella epistolografia cattolica vicina ad Erasmo” (La cristianità dell’Umanesimo e del Rinascimento di fronte al Turco, in I nemici della Cristianità, a cura di G. Ruggieri, Il Mulino, Bologna 1997, p. 190-191).



I testi della trattatistica umanistica e della produzione intellettuale degli ecclesiastici colti negli anni conclusivi del decennio 1520-1530 risentono certamente della percezione di uno stato di sofferenza ingigantito dai più recenti rovesci negativi nella bilancia dei rapporti tra mondo cristiano e schieramento islamico-ottomano, lungo le linee di instabilità che tagliavano a metà il Mediterraneo e la corona di terre che lo circondavano da ogni lato. La forza di richiamo dell’attualità più scottante, gravida di implicazioni che lasciavano presagire sviluppi potenzialmente sempre più sfavorevoli, inquietava le menti degli osservatori più lungimiranti, o almeno meglio informati. Ma sotto il magma tellurico di una situazione incandescente vediamo modularsi gli echi di convinzioni che affondavano le loro radici nell’evoluzione plurisecolare della cristianità dell’Occidente e del suo immaginario collettivo.



Alla base ritroviamo il patrimonio di una cultura che veniva da molto lontano, irrorata dagli apporti costantemente rilanciati della classicità greca e latina che ne aveva forgiato l’armamentario essenziale, messo poi a stretto contatto con il deposito religioso ed etico-normativo di una fede cristiana rimasta ancorata alla sua presa sull’insieme globale della realtà sociale. Nell’impianto di questo umanesimo cristianizzato, che il moto di rinnovamento del Rinascimento non fece altro che spingere su traiettorie solo in parte riconvertite rispetto al passato, si trovavano in sintonia le élites della Chiesa insieme a quelle legate alla gestione dei poteri civili, che tendevano a fondersi fra loro annodando fitti rapporti di interconnessione.

Uno dei cardini della prospettiva di pensiero rinfocolata dagli intellettuali del primo Cinquecento va senz’altro riconosciuto nel senso di appartenenza a una grande Respublica innervata dal tessuto connettivo di un medesimo codice genetico unificante. Ed era un dato pacifico che questa unitarietà di fondo ricomprendesse in sé le differenze innestandole nel concerto di un unico alveo di civiltà, ultimamente (e anche ecletticamente) compartecipato in forme tutt’altro che sovrapponibili fra loro.

Le differenze scaturivano dalle profonde varietà di storia, di costume, di tradizioni linguistiche, di assetti politici, sociali ed economici, dalle specificità delle molteplici identità nazionali e delle loro diramazioni più capillarmente localistiche modellate sul filo dei secoli. Dopo la spaccatura della Riforma protestante si aggiunsero le controversie confessionali. Ma divergenze, competizioni e contrasti anche violenti si sviluppavano pur sempre negli argini di una visione del mondo su base religiosa, nonché di una strutturata “forma del vivere”, che ne traduceva nella pratica i princìpi fondamentali di organizzazione in senso “civile” dell’esistenza collettiva, suscettibili di tollerare al loro interno un forte pluralismo polifonico, segnato da tensioni spesso conflittuali.

I fattori di squilibrio e gli elementi di competizione non si lasciavano però cristallizzare, portando fino alla rottura di ogni trama di dialogo e di interdipendenza reciproca. Ci si muoveva nel respiro di una grande anima comune, disponibili a confrontarsi con franchezza su obiettivi, costi e sacrifici di un bene da condividere al di sopra dell’autonomia delle singole parti che contribuivano a promuoverlo. Bisognava accettare di passare attraverso la non facile coesistenza del molteplice e del diverso nel medesimo orizzonte di destino.

(3 – fine)

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