Nell’estate del 1941 la partecipazione alla guerra da parte dell’Italia si andava facendo sempre più marginale a mano a mano che il conflitto diventava veramente mondiale e coinvolgeva interi continenti. In Africa Orientale resistevano ancora alcuni capisaldi come a Gondar e Culquaber. In Libia continuava l’assedio di Tobruk e gli italo-tedeschi non riuscivano a superare la difesa posta dagli australiani della 9a divisione. In Montenegro scoppiava una sanguinosa rivolta anti-italiana: era l’inizio della guerra partigiana. Intanto la Gran Bretagna, utilizzando tre o quattro divisioni scelte, aveva conquistato la Siria e il Libano governati dalla Francia di Vichy e anche l’Iran aveva dovuto arrendersi alla pressione esercitata da inglesi e sovietici. L’impero britannico, non potendo sfidare la Germania nazista, attaccava e conquistava zone periferiche del mondo ma ricche di petrolio, ponendo così le basi della propria ripresa.
Quanto all’Italia, invece, i generi alimentari continuavano ad aumentare di prezzo in proporzione alla loro progressiva scomparsa dal mercato e i bombardieri britannici iniziavano a colpire Napoli e la Sicilia: incursioni ancora leggere, ma che avvenivano di notte senza che la nostra caccia notturna riuscisse a ostacolarle.
A Napoli, per esempio, era stato adibito a caccia notturno un biplano CR 42 che decollava e, nel buio più fitto, cercava di individuare i bagliori del tubo di scappamento dei bimotori Wellington: il pilota non riusciva a raggiungere l’apparecchio nemico e doveva rassegnarsi a tornare alla base. Sì, ma dov’era la base? Perché con l’oscuramento più completo, privo di idonei strumenti di navigazione, il nostro pilota notturno era fortunato se riusciva a trovare un punto di riferimento qualsiasi e atterrare in qualche modo. Nel frattempo l’Italia aveva inviato un corpo di spedizione in Russia e la marina militare combatteva soprattutto col proprio naviglio leggero nella guerra dei convogli sulla rotta per la Libia, dato che i grossi calibri delle nostre corazzate, in tutta la guerra, non riuscirono a piazzare un sol colpo sulle navi nemiche (!).
A questo punto, di fonte a un fallimento così palese, qualsiasi persona normale si scoraggia. Così fu per milioni di italiani, ma non per una ristretta élite di combattenti che supplirono alla mancanza di mezzi con ingegno e coraggio illimitati. Gli aerosiluranti della 279a squadriglia, per esempio, colsero numerosi successi proprio nel mese di luglio. Guidare un trimotore Savoia Marchetti in missione di siluramento era una delle esperienze più elettrizzanti e terrificanti che si potessero provare. Il pilota guidava l’apparecchio a pochi metri dall’acqua in modo da sfruttare la curvatura terrestre e non essere individuato. Avvistata la nave nemica a circa 30 chilometri di distanza prendeva quota dirigendosi dritto sul bersaglio a una velocità di 300 chilometri orari a una quota di 60-80 metri. A quel punto il Savoia Marchetti, chiamato “gobbo maledetto” per la cupoletta che proteggeva il mitragliere dorsale, avanzava imperterrito in mezzo a sbuffi di contraerea e nugoli di schegge che laceravano le ali e la fusoliera. Il “gobbo” incassava una punizione pesantissima ma doveva arrivare a una distanza di 600-800 metri per esser sicuro del bersaglio. Se avesse sganciato prima, la nave avrebbe potuto manovrare presentando la prora ed evitare il siluro. E invece i nostri piloti, come Carlo Emanuele Buscaglia, Giuseppe Cimicchi e Giulio Cesare Graziani arrivavano alla distanza giusta, sganciavano e passavano radendo le alberature delle navi avversarie. Non c’è da meravigliarsi che gli stessi inglesi restassero stupefatti dalle loro imprese.
Ma l’esempio più commovente e straordinario del coraggio italiano fu l’attacco a Malta degli incursori della X flottiglia Mas il 26 luglio 1941. Dopo tanti fallimenti, il capitano di fregata Vittorio Moccagatta e il capitano di corvetta Giorgio Giobbe, entrambi bolognesi, avevano deciso di portare un colpo mortale a quella base che falcidiava i nostri convogli. L’unico modo per entrare nella rada era abbattere la rete antisiluro che pendeva dal ponte girevole posto nei pressi del forte di Sant’Elmo. Per far questo era necessario che due siluri a lenta corsa (il famoso “Maiale”) con quattro uomini d’equipaggio si portassero nei pressi della rete e la facessero saltare. Sul primo siluro vi era il già leggendario Teseo Tesei, elbano, col capo palombaro Alcide Pedretti, e sul secondo Francesco Costa e Luigi Barla. Una volta abbattute le ostruzioni i barchini d’assalto sarebbero entrati a tutta velocità nella rada alla ricerca di un bersaglio.
Solo descriverla così si percepisce la pazzesca temerarietà dell’attacco, ma Tesei lo sapeva così bene che scrisse in una lettera: “Occorre che tutto il mondo sappia che ci sono degli italiani che si recano a Malta nel modo più temerario. Se affonderemo qualche nave o no poco importa; quel che conta è che si sia capaci di saltare in aria con il nostro apparecchio sotto gli occhi degli inglesi. Avremo così indicato ai nostri figli e alle future generazioni a prezzo di quali sacrifici si serve il proprio ideale e loro ne trarranno l’esempio e la forza per vincere”.
Purtroppo alcuni intoppi tecnici fecero perdere ore preziose e gli incursori giunsero alle ostruzioni alle quattro del mattino. Le reti dovevano saltare alle 4:30, non un minuto più tardi. E fu così che Tesei disse le sue ultime parole a Francesco Costa: “Presumo che non farò in tempo altro che a portare il mio Slc sotto la rete. Alle 4:30 la rete dovrà saltare e salterà. Se sarà tardi spoletterò al minuto”. Così facendo si condannava a morte, ma volle che Pedretti fosse libero di scegliere. “Alcide sei d’accordo?” La risposta dell’eroico lunigianese di Comano gli tolse ogni dubbio: “Maggiore, sono stato con lei ad Alessandria, a Gibilterra e ci rimarrò anche stavolta, costi quel che costi”.
Alle 4:25 si sentì una modesta esplosione, forse una piccola carica di profondità che doveva aver ucciso i due incursori. Il Slc di Costa imbarcava acqua ed era fuori uso. A questo punto Giobbe ordinò ai motoscafi di attaccare comunque: “Frassetto in testa, poi Carabelli… vi lancerete. Se il passo è ancora chiuso, farete saltare l’ostruzione col barchino. Gli altri sei, con Bosio capofila, si infileranno sotto il ponte a qualche secondo di distanza. Ricordate la consegna: perché uno arrivi in porto, tutti, se necessario, dovete sacrificarvi per aprire il varco. In bocca al lupo!”.
Il milanese Aristide Carabelli si lanciò sull’obiettivo e urtò il pilone del ponte alle 4:48. Non tentò nemmeno di lanciarsi, deciso a sacrificare la propria vita per aprire un passaggio ai compagni che lo videro alzare le braccia un attimo prima dell’impatto. Lo scoppio fece detonare anche la carica del Slc di Tesei: crollò un arcata del ponte ostruendo definitivamente il passaggio. Gli altri barchini attaccarono ma furono spietatamente mitragliati dalle difese portuali. L’attacco era fallito. Giobbe e Moccagatta cercarono di tornare verso la Sicilia in pieno giorno ma furono raggiunti dalla caccia inglese e perirono con tutti i loro uomini.
L’attacco ebbe un esito disastroso. 15 morti, 18 prigionieri: solo 11 naufraghi furono recuperati. Nella storia militare italiana è l’azione per la quale è stato conferito il maggior numero di decorazioni: 9 medaglie d’oro al valor militare (8 alla memoria, 1 a Roberto Frassetto, sopravvissuto all’attacco), 13 medaglie d’argento, 7 di bronzo e una croce di guerra.
Follia? Chi lo sa. Ma è quella “follia” insita nelle lucide parole di Tesei che ci permette di guardare al futuro. E passando dal Varignano, dove si addestravano e si addestrano ancora i nostri incursori, davanti al panorama di Porto Venere, si può capire come tanta bellezza vissuta pienamente possa far accettare anche la morte per il proprio paese.
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