Mentre i combattimenti infuriavano in Sicilia, l’azione dei bombardieri alleati continuava implacabile. Dopo l’inizio dell’invasione gli aerei americani si concentrarono sulle città e sulle installazioni dell’isola con l’eccezione del bombardamento di Foggia e di quello di Torino del 12 luglio che causò il maggior numero di vittime dall’inizio della guerra (792). Roma era rimasta indenne fino a quel momento, ed era diventata convinzione generale che l’Urbe non sarebbe mai stata colpita per il suo valore storico, artistico e, soprattutto, spirituale.
Il 17 luglio i B-24 americani sganciarono sulla città volantini con i quali si avvisava la popolazione di tenersi lontana da obiettivi militari. Ma questi obiettivi erano i nodi ferroviari di San Lorenzo: i quartieri popolari che si trovavano intorno furono presi di mira dai bombardieri americani la mattina del 19 luglio e furono schiacciati sotto una valanga di bombe sganciate da 500 apparecchi. Se tale operazione poteva avere ancora un senso da un punto di vista strategico, dato che la distruzione degli scali ferroviari impediva ai tedeschi di far affluire rinforzi in Sicilia, ben più difficile è giustificare i ripetuti attacchi a bassa quota dei caccia americani, che mitragliarono obiettivi civili in assenza di contrasto: una prassi che, sovente, degenerò in puro terrorismo. Il numero dei morti non è mai stato accertato in modo definitivo con cifre che oscillano tra i 1.600 e i 3.200 morti.
L’eroismo disperato di Serotini
Quel 19 luglio 30 caccia italiani decollarono per impedire il massacro e fra quei piloti c’era il tenente Bruno Serotini, di Trastevere, il quale aveva giurato di abbattere almeno un quadrimotore in un modo o nell’altro, anche a costo di speronarlo. Una vanteria? Un uomo d’onore soppesa bene le proprie parole, anche perché sa di impegnarsi a mantenerle. Fu così che Serotini, il 19 luglio 1943, attaccò le formazioni di bombardieri B-24 e riuscì a danneggiarne uno. Non gli bastava. Passò ad attaccarne un altro ma si accorse di aver terminato le munizioni, così che non gli rimase altro che tentare di speronare l’avversario, ma il fuoco difensivo del B-24 era micidiale e i mitraglieri americani colpirono ripetutamente il caccia italiano, ferendo mortalmente Serotini che riuscì ugualmente a lanciarsi prima dell’impatto. I due velivoli si scontrarono e il bombardiere venne abbattuto, ma Serotini, ormai morente, precipitò a terra senza che il paracadute, lacerato dai proiettili, si potesse aprire. L’eroismo disperato di Serotini non fu un caso isolato. Il ventitreenne Ferruccio Serafini, il 22 luglio, a bordo del suo Macchi 205 riuscì ad abbattere due caccia e, finite le munizioni, speronò deliberatamente un P-38 Lightning, restando ucciso nell’impatto.
Mentre sempre più rari animosi si sacrificavano in una lotta senza speranza, si compiva la parabola politica di Benito Mussolini. Il 19 luglio, il Duce era a colloquio con Adolf Hitler a Feltre ma sarebbe più corretto affermare che si limitò ad ascoltare un interminabile sfogo del Führer il quale, peraltro, aveva buoni motivi per lamentarsi del comportamento delle forze armate italiane. Invano Ambrosio cercò di spronare Mussolini a chiedere più aiuti a Hitler, a ritenere il Mediterraneo il fronte principale anziché quello secondario. Il Duce non osò apri bocca, probabilmente per un accumulo di stanchezza fisica e depressione morale. Durante il convegno giunse notizia del bombardamento di Roma e Mussolini ritornò subito nella capitale pilotando personalmente il proprio aereo.
Vittorio Emanuele toglie il Governo al Duce
Nei giorni successivi venne attuata la congiura per togliergli il governo, con l’approvazione decisiva di re Vittorio Emanuele. Questi, in visita nei quartieri bombardati il 19 luglio, era stato accolto con grande freddezza dalla popolazione, al contrario di Pio XII che, in quell’occasione, divenne il simbolo della prossimità di Cristo a un popolo così crocifisso. A decidere il destino del Duce fu, quindi, la consapevolezza che la dinastia non sarebbe durata ancora per molto se non avesse separato le proprie responsabilità da quelle del regime. Contemporaneamente, nella notte del 24 luglio, mentre Bologna veniva massacrata dalle fortezze Volanti (200 morti) anche i gerarchi fascisti cercavano di salvare il salvabile in una storica seduta del Gran Consiglio. Quella notte venne approvato un ordine del giorno con cui si toglieva la fiducia a Mussolini e si restituivano al re le prerogative di comandante in capo. Il giorno dopo, alla fine di un breve colloquio con il sovrano, il Duce veniva messo agli arresti.
La sera del 25 luglio la radio trasmetteva un annuncio letto dallo speaker Giovanni Battista Arista: “Attenzione, attenzione. Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del Governo, primo ministro e segretario di Stato di Sua Eccellenza il cavalier Benito Mussolini e ha nominato capo del Governo, primo ministro e segretario di Stato il cavaliere, maresciallo d’Italia Pietro Badoglio”. Questi, fin dal primo proclama, comunicava due cose: “La guerra continua e l’Italia resta fedele alla parola data”; e “Chiunque turbi l’ordine pubblico sarà inesorabilmente colpito”.
In verità, questo impegno venne mantenuto spietatamente e l’esercito, come ai tempi di Bava Beccaris, tornò a far fuoco sui manifestanti, uccidendone 9 a Reggio Emilia e 23 a Bari, oltre a provocare decine di feriti. Ben 93 dimostranti furono uccisi negli scontri di piazza avvenuti durante il governo Badoglio, a conferma della tradizionale mano pesante dei militari sabaudi.
Il regime si squaglia
Quanto al regime fascista, esso si squagliò nel giro di poche ore e nessuno ebbe voglia di difenderlo. I gerarchi rimasti fedeli al Duce si nascosero per qualche tempo, in attesa di tempi migliori, ma la stragrande maggioranza degli italiani non rimpianse la caduta del regime. Per decenni questo atteggiamento ha fatto discutere e ha dato agli italiani la nomea di voltagabbana. Certamente, passare dalle adunate oceaniche in occasione della proclamazione dell’Impero all’indifferenza verso l’abbattimento dei fregi e dei simboli del fascismo non fa apparire gli italiani un modello di costanza e di fedeltà: eppure c’è da chiedersi a cosa dovessero essere fedeli gli italiani. Forse quello di aver tolto la propria fiducia a un capo che arrogava a sé soltanto ogni potere e ogni responsabilità in caso di trionfo salvo poi scaricare le proprie colpe su collaboratori, generali (colpevoli anch’essi) nonché sullo stesso popolo che lo aveva seguito, malvolentieri, in una guerra mondiale? In caso di sconfitta Churchill o Roosevelt sarebbero stati rimossi democraticamente dal potere. Ma, allora, perché un dittatore deve essere più tutelato del capo di un governo democratico?
Nel frattempo, in Sicilia, la guerra per i soldati italiani continuava, almeno per quelli che avevano deciso in tal senso, ossia soldati come Luigi Scapuzzi, di Fiorenzuola, appartenente al 232esimo battaglione semoventi controcarri che, dopo aver lottato aspramente fin dal momento dello sbarco, si fece ammazzare durante un combattimento notturno dopo aver finito le munizioni del mezzo che comandava.
Gli Alleati, intanto, avevano iniziato l’avanzata nella parte nordoccidentale dell’isola mentre l’offensiva dell’VIII armata di Montgomery si era arenata nella piana di Catania. Il generale Alexander, a questo punto, fu ben lieto di accordare a Patton il permesso di puntare su Palermo allo scopo di accordargli la soddisfazione della conquista della principale città siciliana. Patton formò un corpo d’armata provvisorio, composto dalla terza divisione, dall’82esima paracadutisti e dai ranger e puntò su Palermo giungendo a Corleone il 21 luglio, percorrendo (a piedi) 87 km in 33 ore. Le difese italiane si dissolsero quasi ovunque e il 22 luglio gli americani entravano in Palermo incontrando solo una resistenza sporadica. Il porto, non demolito, venne subito sfruttato da Patton per farvi giungere la nona divisione, rimasta di riserva.
Sommaruga a oltranza contro gli Alleati
Il tenente colonnello Erminio Sommaruga, pavese, comandante del XX gruppo costiero, fu tra i pochi che continuarono a combattere a oltranza. Il 24 luglio, a Marsala, quando ormai gran parte della popolazione accoglieva gli americani come liberatori anziché come invasori, Sommaruga diresse la resistenza dei suoi artiglieri fino all’esaurimento delle munizioni. Erano rimasti pochi uomini a battersi con lui, manovrando le poche mitragliatrici disponibili e anche loro, comprendendo che tutto era finito, si arresero. Non così Sommaruga, che si avventò sull’ultima mitragliatrice rimasta sparando fino all’ultimo colpo per poi alzarsi di fronte al nemico e aprire la divisa sul petto esclamando: “Eccovi un bel bersaglio!”. Una raffica di mitra lo abbatté, come in effetti egli aveva voluto, per non sopravvivere alla disfatta.
Concluse le operazioni nella Sicilia occidentale, tutto il dispositivo alleato si concentrò contro lo schieramento tedesco posto a difesa del settore nord-orientale e di Messina. Il comando tedesco, con incredibile rapidità d’esecuzione, era riuscito a far affluire in Sicilia numerosi rinforzi che andarono a costituire un fronte continuo dal Tirreno allo Ionio. La guerra, come aveva proclamato Badoglio, continuava. Ma per quanto?
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