“Dio ti benedica, amatissima moglie! […] Cristo è risorto, alleluia! Così oggi giubila la Chiesa. Anche se in questi tempi difficili dobbiamo soffrire, rallegriamoci con la Chiesa: cosa c’è di più gioioso del fatto che Cristo è di nuovo risorto ed ha sconfitto la morte e l’inferno? Quale consolazione è per noi cristiani la garanzia di non dovere più temere la morte!”.
Così scriveva Franz Jägerstätter alla moglie Franziska il 25 aprile 1943: era proprio il giorno di Pasqua, l’ultima Pasqua per lui, giunto ormai al culmine della sua breve e luminosa esistenza. Si trovava allora detenuto da poco meno di due mesi nel carcere giudiziario della Wehrmacht, a Linz, in attesa del processo che lo avrebbe condotto, il 6 luglio del medesimo anno, alla condanna a morte per il suo rifiuto di combattere nelle file dell’esercito della Germania nazista.
Non è facile trovare testimonianze più splendidamente semplici e nette di una fede nella potenza della risurrezione di Cristo che arriva a investire, nella sua lineare integralità, anche le circostanze più drammatiche dell’essere gettati nelle miserie della vita nel mondo. La guerra che si trascinava ormai da diversi anni in molti angoli dell’Europa, senza alcuna via di sbocco almeno abbozzata. Le distruzioni, le violenze di massa, le tante sofferenze sperimentate in prima persona. La dura prigionia, in regime di isolamento. L’essere stato strappato dalla propria casa, dalla sposa che amava teneramente e dalle tre figlie ancora in tenerissima età, con il rischio quasi certo di essere presto chiamato a versare il proprio sangue per poter rimanere fedele alla voce più profonda della coscienza, la risoluta voce interiore che gli imponeva di non impugnare le armi per farsi a sua volta complice di un progetto totalitario ostile al primato della religione cristiana: nessuna di queste condizioni, nemmeno le più ingiustamente dolorose, potevano spegnere nell’animo di Franz la lucida consapevolezza di essere stato raggiunto da un avvenimento che veniva prima di tutte le avversità in cui era precipitato.
Al di là delle storture più terribili, proprio nel cuore degli orrendi misfatti di cui gli uomini si rendevano colpevoli nello scontro senza tregua degli uni contro gli altri, restava sempre intatta la fiamma di una novità di vita che aveva fatto irruzione duemila anni prima nello spazio dell’universo, e che da allora aveva ribaltato il segno dell’essere mendicanti su questa terra di una salvezza impossibile da agguantare con le proprie forze esclusive. Questa fiamma di luce era da riconoscere come la fonte della vera gioia: era la sorgente di una positività ultima, di uno sguardo sul destino individuale e del mondo intero spalancato alla possibilità di una redenzione eterna, che oltrepassava anche le tenebre più fitte dell’errore, le mostruosità del peccato eretto a regola di un minaccioso sistema di dominio.
Ciò che più di tutto colpisce, rileggendo la fitta corrispondenza intrattenuta da Franz e Franziska Jägerstätter, è il fatto che qui non ci troviamo di fronte alle elaborazioni intellettuali di professionisti della cultura teologica, bensì alla voce di comunissimi fedeli laici. Si coglie una grande sapienza: le parole e i pensieri grondano di un gusto della vita vera coniugato in modo inestricabile con la cura della massima essenzialità. La parola formulata è impastata con la povertà esemplare di una vita vissuta ai margini, nelle periferie del corpo della società: una “vita nascosta”, per riprendere il titolo che Terrence Malick ha voluto dare al suo magnifico film del 2019, dedicato alla rievocazione in chiave di struggente immedesimazione poetica nella forma di esistenza incarnata dai due coniugi di estrazione contadina.
La testimonianza di Franz e Franziska è tanto più alta e commovente in quanto partita dal basso di una piena umiltà. Erano semplici agricoltori, figli di agricoltori delle campagne dell’Alta Austria. Alle loro spalle non c’era, però, il vuoto di un deserto. Al contrario, le loro radici affondavano nel fertile terreno di una vicenda secolare di cristianità immersa nella concretezza dell’esperienza umana, abbracciata in tutta la varietà delle sue manifestazioni: la famiglia, la fatica del lavoro manuale nei campi e nell’allevamento del bestiame, lo stretto rapporto con i cicli della natura, la scansione del tempo ritmata dagli snodi del culto liturgico e dalle feste dei santi, i codici morali con cui si cercava di dare ordine alle relazioni tra gli individui e all’innesto nella realtà sociale, pur senza mai riuscirvi fino in fondo.
I punti di forza di questa pietà tradizionale erano i pilastri di partenza su cui, nella loro maturità, dopo un lungo cammino di oscillazioni e tentennamenti, Franz e Franziska costruirono una fede semplice come quella dei bambini, ma, insieme, solida e coraggiosa come si richiedeva a veri credenti capaci di confrontarsi a testa alta con le sfide del loro presente. Per essere forti e imparare ad “agire da uomini” (così ne parla Franz, al maschile, nei suoi testi), avevano educato la loro sensibilità mettendosi a leggere ogni giorno la Bibbia, regalata dal parroco nel giorno delle nozze. Si erano attaccati alla vita liturgica della parrocchia con l’aiuto del messalino tradotto da Anselm Schott. Avevano inseguito l’imitazione dei santi e si erano abbeverati ai contributi che venivano dall’insegnamento dei migliori sacerdoti, dai buoni libri che circolavano anche nel mondo rurale, dai giornali su cui si discuteva in paese. Si fecero terziari francescani. Misero il rosario e il culto della Vergine Maria al centro della vita di famiglia. Onorarono la devozione al Sacro Cuore di Gesù, che ogni mese proponeva una speciale intenzione di preghiera. Portarono avanti tutte queste premure fino all’ultimo, mescolandole senza spaccature e ritrosie al lavoro di ogni giorno nella stalla, ai doveri di genitori che cercavano di educare come meglio potevano le figlie loro donate, con la coscienza di essere cittadini di un mondo che andava ben al di là dei confini della loro piccola Sankt Radegund.
La fede stava dentro l’orizzonte dello stato di vita a cui si trovavano consegnati. Per loro, letteralmente, o la risurrezione di Cristo arrivava a rovesciarsi fin dentro la trama ordinaria dell’esistere, o si riduceva ai bei riti di una formalità solo cerimoniale. Franz, in comunione con la propria sposa, consumò gli anni estremi della sua vita per questo. Per questo accettò di morire. E per lo stesso motivo la Chiesa lo ha riconosciuto martire dei nostri tempi travagliati, proclamandolo beato il 26 ottobre 2007.
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