A metà marzo 1943 le armate alleate erano pronte alla battaglia decisiva che avrebbe posto fine alla campagna d’Africa. La situazione degli italo-tedeschi era in continuo peggioramento e la sproporzione di forze ancora peggiore che ad El Alamein, non tanto da un punto di vista meramente numerico, quanto da quello dei rifornimenti e della potenza di fuoco. Il gruppo di armate Africa, sotto il comando del generale Hans Jurgen von Arnim, era schierato lungo un fronte di ben 600 chilometri.



La V armata germanica, che comprendeva, oltre a divisioni tedesche, anche la divisione italiana “Superga”, il reggimento “San Marco” e reparti minori, copriva la strada di Tunisi e Biserta con fronte a ovest fino a Gafsa ed era fronteggiata dalla I armata britannica. Da Gafsa fino al mare, presidiando la linea malamente fortificata del Mareth, vi era la I armata del generale Giovanni Messe che aveva sostituito Erwin Rommel. Di fronte l’VIII armata di Montgomery, reduce dalla battaglia di El Alamein, e fiducioso di aprirsi la strada verso Tunisi con una robusta spallata.



La località di Gafsa era di fondamentale importanza strategica perché faceva da cerniera tra la I e la V armata. Purtroppo era presidiata solo dalla divisione “Centauro” che, a ranghi ridotti, doveva impedire che le tre divisioni del potente II corpo d’armata americano sfondassero le linee e prendessero alle spalle la I armata italo-tedesca. Fu proprio sulla I armata che si scatenò l’attacco principale. La divisione “Giovani Fascisti” era schierata a Zarat, lungo la costa, mentre la “Trieste” presidiava il punto di avanzata più ovvio e vulnerabile, lungo la strada costiera e, con la 90ª divisione leggera tedesca, costituiva il XX corpo d’armata. Più a destra, il XXI corpo d’armata, che comprendeva le divisioni “La Spezia”, “Pistoia” e 164ª tedesca, difendeva il saliente strategico lungo la linea del Mareth mentre il Raggruppamento sahariano, composto da reggimenti di autoblindo, era posto sulle alture di Gebel Melab, a copertura del fianco destro. Di riserva le veterane divisioni corazzate tedesche 15ª e 21ª.



Montgomery all’attacco

Il piano di Montgomery prevedeva un attacco concertato del II corpo d’armata americano e dell’VIII armata britannica. Quest’ultima avrebbe sferrato un assalto frontale alla linea del Mareth, sfruttando la propria potenza di fuoco, e sarebbe passata sulla pancia delle divisioni italiane, mentre il corpo d’armata neozelandese e reparti francesi avrebbero compiuto una manovra diversiva cercando di occupare il passo di El Hamma. In tal modo la I armata italiana sarebbe stata comunque costretta ad abbandonare la linea difensiva, ma il vero obiettivo era quello di insaccare tutta l’armata italo-tedesca, costringerla alla resa e chiudere la partita nel più breve tempo possibile.

L’offensiva iniziò alle 20:30 del 16 marzo secondo le modalità care a Montgomery: bombardamento di artiglieria e attacco frontale delle sue sperimentate fanterie sul fronte del XX corpo d’armata. La “Giovani Fascisti” abbandonò le posizioni avanzate e consolidò la propria resistenza con successo: la “Trieste” perse alcune posizioni nella notte e le riconquistò il giorno dopo e altrettanto fece la 90ª germanica che aveva subìto le perdite maggiori. Per Montgomery fu una sconfitta nettissima con perdite molto alte nelle colonne d’assalto, a causa, soprattutto, dell’artiglieria italiana, manovrata in modo efficace e duttile per merito del generale Belletti. Il II corpo d’armata americano, comandato dal generale Patton, attaccò Gafsa nel quadro dell’operazione Wop (trad. guappo, denominazione dispregiativa degli immigrati italiani). L’offensiva superò le deboli difese della “Centauro” e si spinse fino a El Guettar.

Il 20 marzo l’VIII armata scatenava un nuovo attacco sul fronte tenuto dalla “Giovani Fascisti”. La 50ª divisione britannica varcava lo uadi Zigzaou e riusciva a conquistare alcuni capisaldi tenuti dalla divisione e dai battaglioni del 7° reggimento bersaglieri. La battaglia durava per due giorni, fino a quando la 15ª corazzata germanica interveniva con un contrattacco micidiale, coadiuvata da bersaglieri e camicie nere. Il saliente occupato dagli inglesi veniva resecato alla base e la 50ª si ritirava in disordine dopo aver subito perdite gravissime. Non altrettanto efficace l’azione della 21ª panzer a El Hamma, respinta duramente dai neozelandesi. La situazione però veniva ristabilita dall’arrivo della 164ª tedesca e, in tal modo, le linee della I armata resistevano all’offensiva alleata.

Messe aveva dunque battuto Montgomery su tutta la linea del fronte, infliggendogli perdite sanguinose e difficilmente sostenibili. L’avanzata del II corpo americano si era, però, dimostrata assai pericolosa e proprio gli americani avevano stroncato un contrattacco della 10ª divisione panzer tedesca il 23 marzo. Gli americani di Patton, tuttavia, non riuscirono a sfruttare la propria superiorità, mancando un successo che era alla loro portata. La situazione della I armata appariva così delicata che il prudente von Arnim rifiutò di approvare la proposta di un contrattacco avanzata da Messe e ordinò la ritirata su una linea difensiva più breve ad Akarit.

Le perdite della I armata erano state, peraltro, molto pesanti: 16 battaglioni, 31 batterie e 60 carri ed erano perdite non ripianabili. Inoltre il tempo giocava a sfavore degli italo-tedeschi, perché la potenza aeronavale alleata stava distruggendo ogni possibilità di rifornimento alla Tunisia. Navi da trasporto e da guerra venivano continuamente affondate. Il canale di Sicilia stava diventando il cimitero della Marina italiana. Il 24 marzo il cacciatorpediniere Malocello incappava su una mina inglese e affondava. Il tenente di vascello Adolfo Gregoretti si prodigava per assistere i marinai nell’abbandono del caccia, rifiutandosi di abbandonarla prima di avere la certezza che tutto l’equipaggio fosse salvo e scompariva con la nave.

Eroi nonostante Mussolini

Un eroismo da disperati? No. Solo un senso del dovere portato fino all’estremo. E che le cose stessero così mi fu confermato da un reduce di quei giorni. Nell’estate del 1992 ebbi l’opportunità di parlare con Walter Haeffely, pilota di aerosiluranti, abbattuto il 27 marzo 1943 durante un’incursione su Philippeville. Sereno, persino ironico, mi fece vedere la medaglia d’argento dicendo: “se fossi morto sarebbe stata d’oro. Ma direi che è andata bene”. E commentando un libro di Gianni Rocca sull’aviazione italiana dal titolo I disperati, mi disse che disperati, loro, i combattenti non lo erano mai stati.

Erano questi gli italiani che il duce avrebbe voluto cambiare, irridendo ai loro difetti mentre il più italiano di tutti, in senso deteriore, era proprio lui, Benito Mussolini. Il 23 gennaio 1943, al momento di conferire il comando della I armata al generale Messe, Mussolini affermò che la Grande Unità aveva un buon armamento ed era in buone condizioni. Al che Messe replicò di essere a conoscenza di una situazione ben diversa e Mussolini troncò la discussione grazie anche al mutismo del maresciallo Cavallero che gli aveva passato informazioni non rispondenti al vero.

Era il duce a essere disperato, così alla ricerca di un qualsiasi successo da vantare che, quando Messe gli inviò il rapporto confidenziale e riservato resoconto della battaglia del Mareth, fu così entusiasta da farlo pubblicare sulla stampa. In tal modo gli italiani, affamati e bombardati da mattina a sera, seppero che i propri soldati si battevano contro forze preponderanti e che erano decisi a resistere fino alla fine. Se Radio Londra avesse pubblicato questo rapporto non avrebbe potuto fare una propaganda migliore agli Alleati.

Ma i giorni del governo Mussolini erano ormai alla fine. Restava l’Italia ed era questa che i soldati della I armata, sbrindellati e senza munizioni, continuavano a difendere.

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