La guerra scatenata dalla Russia di Putin contro l’Ucraina è stata confinata nelle pagine degli esteri dei quotidiani già da tempo. Di questa smemoratezza approfittano un po’ tutti, indipendentemente dalla posizione politica e perciò è difficile comprendere come siamo arrivati a questo punto. Sarebbe, invece, il caso di riprendere in mano il nostro più recente passato. Trent’anni ci separano dalla sventurata operazione “Restore Hope” in Somalia e trattare di quella missione è, invece, necessario in quanto case study fondamentale per capire quali occasioni hanno perduto l’Occidente e l’Onu per rimediare alle sofferenze dell’Africa e per avere un minimo di credibilità internazionale.
Nel dicembre del 1991 era passato quasi un anno dalla trionfale campagna contro Saddam Hussein. L’Onu, pur constatando la difficoltà di sedare i conflitti nella ex Jugoslavia, aveva pensato di ricorrere a una politica assertiva nella Somalia sconvolta dalla guerra tra bande rivali e dalla carestia. Era ovvio a chiunque che solo una forza armata avrebbe potuto contrastare gli eserciti dei vari “signori della guerra” e costringerli a una trattativa che ridesse speranza al Paese.
Le operazioni in Somalia (Unosom I) furono condotte inizialmente dalla Unified Task Force (Unitaf), circa 25mila uomini di 23 Paesi, ma con fortissima preponderanza americana (quasi 20mila uomini). L’unità del comando e la perfetta organizzazione permisero alla Unitaf di raggiungere molti degli obiettivi previsti, come la diminuzione drastica dei decessi per fame e malattie, non però il disarmo delle fazioni, data l’inadeguatezza dell’organico.
Al 20 gennaio 1993, gli effettivi del corpo di spedizione multinazionale erano saliti a 36mila uomini. I tempi erano maturi per passare alla seconda fase dell’operazione, e cioè alla ricostruzione della Somalia, ma premessa indispensabile era il disarmo dei signori della guerra. L’egiziano Boutros Ghali, segretario generale delle Nazioni Unite, era deciso a far sì che tale obiettivo fosse conseguito dall’Onu in prima persona. Lo strumento militare organizzato a tal fine era, però, totalmente inadeguato. Il 3 maggio prese il via l’operazione Unosom II, condotta da appena 20mila uomini di 28 nazioni, e dove il contingente più numeroso era quello del Pakistan (5mila uomini), seguito da quelli statunitense (2.700) e italiano (2.500). Le cose andarono male quasi subito.
Il 5 giugno 1993 i pakistani, scelti per fraternizzare con la popolazione musulmana, caddero in un’imboscata durante un rastrellamento e subirono gravi perdite: 36 uomini tra caduti e dispersi. La missione diveniva di carattere prettamente militare e i dirigenti statunitensi decisero di risolvere la cosa con la forza. A tali metodi si oppose il generale Bruno Loi, comandante del contingente italiano, che intendeva ristabilire buoni rapporti con la popolazione prima di procedere ad altri rastrellamenti.
Il 2 luglio 1993, a Mogadiscio, ottocento soldati italiani che stavano compiendo un rastrellamento nei pressi del vecchio pastificio (Checkpoint Pasta) si trovarono bloccati da barricate e da una folla di manifestanti. Presi in trappola, gli italiani riuscirono a venirne fuori al costo di 3 morti e 22 feriti mentre i caduti somali, appartenenti alle milizie di Mohammed Farh Aidid, furono 80.
In quell’occasione, la prima battaglia dell’esercito italiano dopo il 1945, il nostro contingente seppe manovrare con perizia, impiegando carri armati M60 in ambito urbano per dare potenza di fuoco e i nuovi elicotteri d’attacco Mangusta che si dimostrarono altamente efficaci. Fatto ancora più notevole, il mix di soldati di leva e di incursori paracadutisti professionisti funzionò bene dandosi reciproco supporto. I comandanti di Unosom II, l’ammiraglio americano Jonathan Howe e il generale turco Cevik Bir, fecero pressioni perché Loi riprendesse i checkpoints Pasta e Ferro, perduti il 2 luglio, ma il generale italiano sapeva che l’offensiva gli sarebbe costata almeno il 10% delle forze impiegate. Pertanto andò a trattare con gli anziani e i capi guerriglieri e riconquistò i checkpoints senza sparare un colpo; questo mandò su tutte le furie sia Howe che la dirigenza Onu. Mentre Boutros Ghali chiedeva all’Italia la sostituzione di Loi, il 12 luglio elicotteri americani distruggevano un edificio dove si stava tenendo una riunione tra capi tribù, molti dei quali favorevoli all’intervento umanitario dell’Onu. Settanta persone rimasero uccise e moltissime altre ferite gravemente, così che la popolazione furibonda si vendicò linciando quattro giornalisti stranieri.
Con Loi messo fuori gioco il comando Onu passò all’azione muscolare facendo giungere reparti speciali americani per condurre la caccia ad Aidid. Quell’estate le forze americane sul campo erano costituite dalla 10ma divisione da montagna, da una compagnia di Rangers, da uno squadrone di operatori della Delta Force e da elementi delle forze speciali. Obiettivo: catturare Aidid. Va subito evidenziato che i rapporti tra fanteria, rangers e forze speciali erano tutt’altro che idilliaci. Lo spirito di corpo prevaleva quanto maggiore era l’autostima verso il proprio reparto e la diffidenza verso quelli estranei. Le incursioni americane avvenivano sempre via aerea poiché i somali non avevano missili terra aria ma questo continuo passare di elicotteri a bassa quota su centri abitati stava compromettendo il rapporto con la popolazione. I grandi elicotteri passavano ad ogni ora del giorno e della notte, distruggevano i tetti delle baracche e devastavano i mercati. Il 19 settembre soldati americani e pakistani vennero colti in un’imboscata simile a quella del checkpoint Pasta ma, per venirne fuori, dovettero ricorrere al fuoco degli elicotteri d’attacco sulla folla di manifestanti: centinaia di civili furono falciati da razzi e cannoncini, aumentando così la rabbia e il rancore della popolazione nei confronti dell’Onu. I rangers, intanto, continuavano a eseguire missioni a vuoto, ingigantendo la fama di Aidid.
La notte del 25 settembre un elicottero Black Hawk fu abbattuto da un razzo anticarro. Tre uomini d’equipaggio morirono e i piloti si salvarono per miracolo. Gli elicotteri non erano poi così invulnerabili. Mark Bowden, nel suo fondamentale libro Falco nero, riporta come alcuni guerriglieri provenienti dal Sudan e reduci dalla guerra in Afghanistan (quasi certamente di al Qaeda), avessero insegnato ai somali come trasformare i razzi anticarro RPG-7 in missili antiaerei spalleggiabili, fissando manicotti di lamiera allo scarico dei razzi in modo da deviare la fiamma senza correre il rischio di ustionarsi a morte. Nonostante le richieste dei piloti, il comando americano non modificò l’approccio tattico alle operazioni.
Si giunse così al pomeriggio del 3 ottobre, quando quattro elicotteri sbarcarono altrettante squadre di rangers che circondarono un edificio dove si trovavano alcuni capi del clan Aidid. Nel frattempo, i Delta scendevano sul tetto dell’edificio e catturavano i sospetti, consegnandoli a un convoglio di mezzi con corazzatura leggera che li aspettava a poca distanza. Il tutto sarebbe dovuto durare mezz’ora e il ritorno alla base era previsto per le quattro del pomeriggio. I guai iniziarono proprio in quel momento, a partire da un ritardo di tre quarti d’ora nella partenza del convoglio: ritardo dovuto al fatto che il convoglio aspettava che i Delta uscissero dall’edificio e i Delta aspettavano di essere chiamati dal convoglio. Quando la colonna partì era troppo tardi. Migliaia di somali, armati e disarmati, stavano convergendo sul punto dell’attacco e facevano barricate che imponevano continue deviazioni agli automezzi. Guidare in una città morta come Mogadiscio, priva di punti di riferimento era già un’esperienza da incubo: oltre a ciò, da ogni angolo della strada e dai tetti, mitragliatrici e razzi anticarro tartassarono la colonna che continuò a girare a vuoto a causa del sistema di comunicazioni eccessivamente centralizzato che non permetteva un’efficace direzione dall’aereo che sorvolava la zona.
Un primo elicottero venne abbattuto, poi un altro e altri due vennero danneggiati, riuscendo tuttavia a rientrare alla base miracolosamente. I difensori di uno dei due relitti furono massacrati e un pilota preso prigioniero.
Fu solo all’alba che una colonna di blindati pakistani e malesi riuscì a recuperare i superstiti. Si concluse in tal modo un’operazione “tecnicamente riuscita”, come la definì il comando americano, che vide la morte di 18 americani e il ferimento di altri 78, mentre i somali uccisi furono centinaia.
In realtà l’operazione fu un disastro epocale. Tre giorni dopo la battaglia il presidente Clinton dichiarò il disimpegno americano dalla Somalia e venne a patti con Aidid, allo scopo di ottenere la restituzione di un pilota caduto prigioniero. Boutros Ghali dovette abbandonare l’ideologia onusiana di intervento nelle zone disastrate del pianeta, tornando alla piena subordinazione nei confronti degli Stati Uniti. Ancora qualche mese e la forza multinazionale di pace si reimbarcò, lasciando il Paese nelle stesse condizioni in cui lo aveva trovato.
Peggio ancora, Osama bin Laden, i cui guerriglieri avevano addestrato i somali, pensò che gli Stati Uniti potessero essere sconfitti militarmente, a causa dell’indisponibilità a subire perdite: mancavano poco meno di nove anni all’11 settembre.
Le lezioni che si possono ricavare sono le seguenti.
– Nelle Military Operations other than war prima di usare le armi bisogna esperire ogni mezzo per arrivare ad un accordo. Il problema, tutto americano, è che troppo spesso (si pensi alla scellerata campagna Iraqi Freedom del 2003) la strapotenza militare di cui gli Stati Uniti dispongono li ha portati ad usarla senza pensare ad utilizzare mezzi incruenti di guerra asimmetrica e diplomatica tendenti a evitare o a limitare l’uso delle armi.
– Qualora vi siano scontri armati occorre moderare l’uso della forza, tornare al negoziato e privilegiare il rapporto con le popolazioni come fecero, in Iraq, i generali Donald Petraeus e James Mattis.
– Una volta iniziata la guerra (ultima ratio regum) bisogna convincere la nazione a sopportarne le perdite in vite umane e i costi finanziari. Infatti ogni ritiro, dalla Somalia nel 1993 all’Afghanistan nel 2021, ha comportato una perdita di credibilità che ha fatto insorgere in varie parti del mondo pericolose tentazioni di giocare d’azzardo, speculando sulla debolezza morale dell’Occidente. Questa debolezza è reale, come constatiamo ancora oggi, ed è con essa che i politici occidentali devono fare i conti.
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