Il prossimo 5 maggio cadrà il duecentesimo anniversario della morte di Napoleone Bonaparte. Non vogliamo qui porre su alcun piatto di bilancia altari e polveri. Rimane ad oggi ben saldo l’asserto manzoniano sul rinvio d’ogni “ardua sentenza” ad un tempo la cui distanza potrebbe essere garanzia d’obiettività. E forse oggi, in Francia come in Italia, la distanza è ancor troppo “breve”.



L’apprezzamento del genio militare, d’una visione politica originale, del fascino sugli eserciti e sulle donne e dell’invenzione di un’estetica nuova, talora mette troppo a lato le smodatezze e le insaziabili voracità, le centinaia di migliaia di vite sacrificate alla propria ambizione, il disprezzo per i monarchi dell’ancien régime per i loro sudditi.



Può esser interessante, su tal ultimo punto, entrare di soppiatto in qualche angolo appartato d’una storia di luoghi e di genti e trarne spunti di riflessione quanto alle modalità peculiari di quell’occupazione che i Francesi attuarono in una parte d’Italia, la Puglia, apparsa al Primo Console e ai suoi generali, proprio sul debutto del secolo nuovo, come un’area strategica d’essenziale rilievo.

La pace di Firenze del 28 marzo 1801 era stata l’esito necessario della sconfitta delle truppe borboniche (ossia del fronte sud della Seconda Coalizione), guidate dai generali Roger de Damas e Pignatelli di Strongoli, ad opera delle irresistibili legioni francesi di André Bruno de Frévol prima, di Gioacchino Murat poi. Le clausole di quella pace erano severissime: Ferdinando IV di Borbone doveva rinunciare all’Isola d’Elba, allo Stato dei Presidi e al Principato di Piombino; pagare 500mila franchi ai cittadini francesi danneggiati, scarcerare i prigionieri politici e rimpatriare gli esiliati, restituendo i beni loro confiscati. Un codicillo segreto imponeva che lo stesso re Ferdinando consentisse ad oltre 15mila soldati (francesi, cisalpini e polacchi) d’occupare “pacificamente” le province della costa adriatica del Regno di Napoli, dagli Abruzzi fino alla Terra d’Otranto (viste come essenziale punto d’osservazione e controllo verso Est), a partire dall’aprile 1801 al giugno 1802. Comandante in capo di tal invasione – che imponeva ai comuni pugliesi alloggio, vettovagliamento, vestiario e paga per la soldatesca – era il generale Nicolas-Jean de Dieu-Soult di stanza a Taranto, coadiuvato per Terra di Bari dal generale Jean-François Carra de Saint-Cyr. La carriera di questo gentiluomo lionese era stata alquanto diversa da quella dei generali d’un decennio più giovani venuti alla ribalta con la Rivoluzione e il Primo Consolato.



Nato nel 1757, figlio del signore di Vaux e di Saint-Cyr, Jean-François Carra era entrato a diciassette anni nel prestigioso Régiment de Bourbonnais. Nel 1793 era divenuto aiutante di campo del generale Jean-Baptiste Aubert-Dubayet, seguendone le sorti al ministero della guerra come all’ambasciata presso la Sublime Porta Ottomana. Dopo la morte di Dubayet, de Saint-Cyr ne sposerà la vedova ed entrerà nell’Armée d’Italie, distinguendosi a Marengo tanto da venir promosso generale di divisione.

È da seguire il più estroverso Soult nella spedizione in Puglia. Testimoni della sua permanenza barese restano un carteggio di sessantasette lettere (quasi tutte spedite a Soult tra il 26 aprile 1801 e il 6 giugno 1802) e un Mémoire sur la Province de Bari adressé au général Soultle 23 juin 1801. Le prime furono pubblicate in italiano sulla Rassegna pugliese settembre e dicembre del 1913 e ripubblicate da Fulvia Fiorino nel 1993; il secondo è un manoscritto inedito della Bibliothéque Nationale de France.

Le lettere a Soult sono quelle di un burocrate militare al suo superiore: vi traspare l’attenzione puntigliosa al rilievo e all’osservazione del territorio, dei porti e delle risorse, delle persone e degli eventi, ma ogni reale iniziativa è rimessa al “Cittadino Generale”. Le lettere ad altri – dal comandante del porto di Bari al duca d’Ascoli – sono più autoritarie, spesso intimidatorie e taglienti. Tuttavia Carra de Saint-Cyr saprà trovare in Terra di Bari minori ostilità del suo predecessore, il generale Jean Sarrazin: un trentenne della Garonna che il 10 aprile 1800 era stato nominato generale in grazia del successo personalmente ottenuto con l’occupazione di Brindisi. E che aveva subito convocato a Bitonto un “Congresso dei deputati delle municipalità” della Terra di Bari. […] L’oggetto principale dell’adunanza era di manifestare alle diverse Città le contribuzioni che dovevano esse pagate sul punto dell’armata, sotto pena di soffrire il rigore militare col saccheggio e col fuoco, “a ciò che gli veniva portato (i gioielli delle nobildonne, come i preziosi incensieri delle chiese capitolari), Sarrazin aveva aggiunto la razzia sistematica di tutto quanto gli capitava a tiro (destò grande eco e profonda indignazione fra il popolo il sequestro del tesoro della Basilica di San Nicola di Bari).

Saint-Cyr volle mostrarsi più elegante e diplomatico: interessandogli – ancor più che della spoliazione della nobiltà e del clero o dei sostanziosi prelievi dalle casse dei municipi, sui quali fu comunque inflessibile – la fondazione di una nuova classe di “notabili per censo” favorevole ai francesi. Che escludeva la nobiltà di latifondo – quella più antica e di casa nelle Corti di Napoli o di Caserta – e chiamava a raccolta i nobili recenti, i notai, i medici,  taluni intellettuali, i parvenus. E con loro – tra il quartier generale, i circoli degli ufficiali e i palazzi di lusso nuovo e ostentato – diede il via ad un tourbillon di cene, ricevimenti, feste da ballo con o senza maschera, nelle quali l’entente cordiale tra République française e Terra di Bari si sostanziava d’affari e traffici lucrosi per entrambe le parti.

L’opposizione veniva dall’aristocrazia più alta, silenziosamente arroccata nelle masserie fortificate e dal popolo di marineria e d’agricoltura. Carra de Saint-Cyr nelle lettere a Soult lamenta che ai fornitori delle sue cucine, mani sconosciute abbiano tagliato la gola in un agguato, che chiunque si faccia vedere con un francese sia additato ed emarginato, che le campagne vengano percorse o da partigiani in cerca di sangue francese o da disertori francesi convertiti al brigantaggio. Né erano ignoti a Carra o a Soult i casi, numerosissimi, d’amori fra soldati, giovani ufficiali e fanciulle del luogo, causa di fughe dalle case paterne e dai conventi, di diserzioni, di nascite d’infanti dai tratti bretoni o normandi. Farà storia la vicenda d’una giovane suora di Massafra e d’un bell’ufficiale: amore vero, poiché lui la porterà con sé in Francia, ove vivranno sposi felici e contenti.

Certo è che, quando nel giugno del 1802 le bandiere francesi s’allontaneranno dalla Puglia – Soult verso il comando della piazza militare di Boulogne e Saint-Cyr verso il governatorato di Magdeburgo – tutti da Pescara a Taranto tireranno un sospiro di sollievo. Non sapendo che in meno di un anno altri Francesi (dopo Austerliz) sarebbero tornati e stavolta per rimanere assai a lungo: prima col generale Masséna, poi con Giuseppe Bonaparte e con Gioacchino Murat, i nuovi re di Napoli. E sarà il decennio francese.

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