Nell’autunno del 1943 la campagna d’Italia mostrava quelli che sarebbero stati i suoi dati caratteristici: una lentissima avanzata sulle montagne o attraversando fiumi contro un nemico come quello tedesco, inferiore per numero e mezzi ma che sapeva sfruttare abilmente ogni elemento del terreno. D’altra parte lo stesso Napoleone aveva detto che l’Italia, fatta come uno stivale, può essere invasa solo in un modo, ossia calzandolo dall’alto. Così la V armata americana e l’VIII armata britannica, separate dagli Appennini, avrebbero finito per combattere due campagne indipendenti senza potersi dare reciproco sostegno (per un esame complessivo della campagna d’Italia si veda, di chi scrive, Il paradiso devastato: storia militare della campagna d’Italia 1943-1945, Ares 2012)



Nella seconda metà di novembre il maresciallo Montgomery guidava la sua VIII armata per l’ennesima offensiva prima di trasferirsi in Gran Bretagna per preparare l’operazione “Overlord” ossia lo sbarco in Francia. L’attacco fu preparato in modo meticoloso e professionale ed ebbe pieno successo. La 78esima divisione britannica “Battleaxe” passò il Sangro e fece a pezzi la 65esima divisione tedesca arrivando al fiume Moro. Il piano di Montgomery si stava dunque realizzando: prendere Pescara per far cadere la Linea Gustav e raggiungere Roma, per quanto apparisse assai arduo far transitare intere divisioni per i passi appenninici in pieno inverno.



La 78esima, ormai esausta, venne sostituita dalla prima divisione canadese che tornava a essere testa d’ariete dell’VIII armata. I canadesi, tutti volontari, passarono il fiume Moro nella notte tra il 5 e il 6 dicembre avanzando su Ortona (Chieti) mentre i neozelandesi cercavano, invano, di impadronirsi di Orsogna, più all’interno. Dopo furibondi combattimenti a Villa Rogatti, San Donato e San Leonardo i canadesi riuscirono a dissanguare la 90esima divisione tedesca solo per trovarsi di fronte i paracadutisti della prima divisione, l’élite dell’élite, tra le migliori unità tedesche di tutta la guerra. Dopo aver logorato almeno tre reggimenti, i canadesi giunsero ad Ortona, senza prevedere in che inferno sarebbero capitati.



Chi studia storia militare può stupirsi di come certi luoghi, in Italia, non siano conosciuti dagli italiani solo perché non vi è memoria di quanto accaduto. Chi arrivi ad Ortona può vedere a Porta Caldari, sul muro di un edificio rimasto miracolosamente in piedi, una scritta con cui i soldati alleati sono avvisati dell’inizio del coprifuoco. Da quella casa comincia Corso Vittorio Emanuele, una strada lunga e stretta che porta fino al Comune e al cuore di Ortona. Nella piazza del Comune ci si trova a un bivio. A sinistra si trova piazza Plebiscito e il suggestivo monumento ai soldati canadesi, a destra, invece, si prende per la basilica di san Tommaso e, proseguendo, verso il castello aragonese. I tedeschi avevano trasformato la città in una trappola mortale fin da Porta Caldari, facendo saltare gli edifici e ostruendo tutte le vie laterali così da rendere percorribile solo Corso Vittorio Emanuele. Ancora oggi, è facile immaginare quel lungo budello come una trappola mortale ed è intuibile l’unica tattica che i canadesi potevano adottare: conquistare una casa dopo l’altra, a sinistra e a destra del corso. Quando si parla, oggi, di combattimento urbano a Gaza, bisognerebbe ricordare che le forze armate alleate nella Seconda Guerra mondiale dovettero affrontare qui, ad Ortona, il loro primo sanguinosissimo tirocinio.

Era necessario fare un grande uso del tritolo o, in mancanza di esso, di un grappolo di bombe a mano o di una mina anticarro Teller infilati in un buco nel muro della casa dove si voleva entrare. Una volta praticata la breccia i canadesi dovevano entrare nell’abitazione e combattere stanza per stanza, sparando attraverso i muri mentre i tedeschi tiravano granate giù per la tromba delle scale. Un’alternativa spesso praticata era quello di lanciare una corda con rampini sul tetto e arrampicarsi, in modo da avere il vantaggio dell’altezza e ripulire le stanze andando dall’alto verso il basso. Ma questa è solo teoria: in realtà ogni casa era una sfida e passare da un’abitazione all’altra, anche nel modo più prudente, significava finire sotto il tiro dei cecchini o delle mitragliatrici. Bisognava quindi praticare fori nei muri e, per non passare davanti alle finestre, scendendo per le scale, era necessario forare il pavimento e passare dai piani inferiori a quelli superiori e viceversa. I tedeschi minavano tutto; gradini, porte, persino gli sciacquoni dei gabinetti. Superfluo dire che moltissimi civili morirono sotto le macerie delle proprie case quando queste furono fatte saltare oppure sopravvissero a stento, vivendo della carità dei soldati canadesi o tedeschi, a seconda della parte del fronte in cui si trovassero. Va altresì detto che parà tedeschi e canadesi, nonostante si combattessero con ferocia, seppero mantenere un reciproco rispetto verso i prigionieri, con un autocontrollo proprio dei corpi d’élite. Il fatto è abbastanza strano perché la prima divisione e, in particolar modo, il III reggimento che combatté ad Ortona era stata autrice di numerosi massacri di civili circa 250 persone tra uomini, donne e bambini, da settembre a dicembre del 1943.

All’alba del 21 dicembre i canadesi erano riusciti ad avanzare solo di 300 metri. In questo modo Ortona non sarebbe mai stata conquistata. Il 22 dicembre una colonna di carri armati, accompagnata da tre striminzite compagnie degli Edmonton, caricò a testa bassa lungo via Vittorio Emanuele, sparando contro le finestre delle case e irrompendo nel vivo delle difese tedesche. L’attacco ebbe inizialmente un notevole successo, perché i parà erano stati colti completamente di sorpresa. Ma fu fermato da un cumulo di macerie. Il combattimento continuò in piazza del Municipio e in piazza San Francesco, dove i tedeschi avevano abbattuto scientificamente anche le facciate delle case prospicienti le proprie postazioni perché non venissero impiegate dagli avversari.

La notte di Natale, nelle immediate retrovie, i soldati riuscirono ad avere un rancio un poco più ricco e qualcuno ebbe anche il sollievo di assistere alla Messa. Il generale Cristopher Vokes, comandante della divisione, cenò da solo e pianse. Probabilmente Vokes pensava alle sofferenze patite dai suoi uomini e a come la sua magnifica divisione si stava dissanguando per un obiettivo ormai inutile: era ovvio a chiunque che non ci sarebbe stata nessuna avanzata su Roma, ma Ortona doveva essere conquistata, almeno per motivi di prestigio.

Solo il 26 dicembre il 48esimo Highlanders, trincerato sulle alture a ovest di Ortona, riuscì a respingere un massiccio contrattacco tedesco e a conquistare le alture che dominavano la statale adriatica attraverso la quale i tedeschi venivano riforniti. Infatti, il fattore più importante nella conquista di una città è il suo isolamento, come abbiamo potuto vedere nella battaglia di Bakhmut a Gaza e ad Avdiivka. Il 28 dicembre i tedeschi, esauriti quanto i loro avversari, si ritirarono. Ortona era stata conquistata, ma i veri vincitori furono i parà del III reggimento perché la prima divisione canadese fu praticamente dissanguata. Nel solo mese di dicembre i nordamericani avevano perduto 164 ufficiali e 2.101 uomini e non poterono più compiere alcuna operazione. Montgomery non avrebbe conquistato Roma come si era sfacciatamente vantato e la sua migliore Grande Unità era stata logorata in modo quasi irreparabile per uno scopo futile. Il fronte adriatico sarebbe stato fermo per diversi mesi e il centro di gravità dell’offensiva veniva spostato sul Tirreno.

Quando il lettore andrà ad Ortona si ricordi di passare dal cimitero canadese di San Donato. Scendendo verso sud lungo la statale 16, quando vedrete alla vostra sinistra il campanile di una chiesa, girate in quella direzione verso il mare e troverete il War Cemetery con le sue 1.615 croci, perfettamente ordinato come tutti i cimiteri di guerra britannici. A noi, che dobbiamo la nostra libertà a questi ragazzi (uno dei caduti qui sepolti aveva appena 16 anni) non resta che sederci sulla panchina tra gli alberi e ascoltare la splendida Breaking the sword della canadese Loreena McKennitt e pensare che “You gave your life for all of us/ And all humanity”.

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