Le tensioni conflittuali e lo scontro violento tra i contendenti che entravano in rotta di collisione hanno accompagnato la storia del mondo europeo fin dai suoi momenti di avvio. Una condizione di crisi è stata lo sfondo, si può dire permanente, entro il quale si sviluppavano le pressioni degli interessi e le strategie in contrasto che non riuscivano ad armonizzarsi: la questione decisiva era come bilanciare tra loro le spinte destabilizzanti, soprattutto quando queste arrivavano a essere distruttive, smantellando ogni presunzione utopica di poter instaurare un regime di perfetta pace perpetua, magari fondata sul dominio unilaterale della potenza del più forte. Era così anche nella fase cruciale di passaggio sulla strada del radicamento della modernità che siamo soliti identificare con il Rinascimento del XV-XVI secolo.
Il clima di incertezza diffusa si legò, allora, oltre che ai malesseri interni alla Cristianità, alle insidiose minacce che venivano dai turbolenti margini sudorientali del Mediterraneo. Qui si era installato il giovane agglomerato imperiale sottoposto all’egemonia dei turchi ottomani, lanciato nella sua politica di espansione lungo le rotte di navigazione e negli spazi territoriali dell’area balcanica, nel mosaico delle isole, in tutta la fascia del Nordafrica contesa ai potentati arabi, ai clan della pirateria berbera e magrebina, alle fragili roccaforti della Reconquista spagnola proiettata al di fuori dei confini della penisola iberica.
Le linee di frattura che si erano aperte si intrecciavano a oscuri presagi di rovina imminente, capaci non solo di alimentare un senso di allarme generale, ma di nutrire anche il desiderio potente di trovare vie di uscita dallo stato di difficoltà in cui si era immersi e di dare nuovo impulso alle attese profetiche di definitivo risanamento dei mali della vita del mondo. Era perciò inevitabile che i motivi di fondo di una inquietudine largamente condivisa si ripercuotessero sull’insieme delle attenzioni coltivate dalle menti più acute del ceto intellettuale del tempo, sollecitandone la lucida sensibilità. Ne è un esempio eloquente l’Utilissima consultatio de Turcis bello inferendo (“Sulla guerra con cui contrastare i turchi”), pubblicata da Erasmo da Rotterdam a Basilea nel 1530.
La traccia di pensiero che fa da sponda all’umanista olandese è la scrittura biblica del salmo 28, riletta attraverso il filtro dell’esperienza vissuta nel presente. Come nel simbolismo religioso della preghiera del salmo Dio si rivela attraverso la violenza scatenata dagli elementi naturali, che fanno esplodere saette di fuoco e abbattono i robusti cedri del Libano, risparmiando però il popolo fedele dell’antica alleanza, così nella scena che si poteva avere sotto gli occhi – ragiona Erasmo – si era assistito al prorompere di quella che solo in superficie appariva come l’ira devastatrice del Dio giudice, signore degli eserciti e vendicatore del male compiuto dall’uomo. L’alluvione che minacciava di travolgere l’edificio del mondo cristiano non era l’anticamera della rovina totale. La si doveva vedere, piuttosto, come una rude provocazione estrema, ormai non più eludibile senza severe conseguenze: mettendo tutti con le spalle al muro, costringeva a un radicale esame di coscienza, senza sconti per nessuno. Predisporre le giuste difese umane davanti all’incombere del pericolo era una forma di realistica prudenza. Bisognava tuttavia evitare di cadere nell’errore di contrapporsi alla potenza dei nemici esterni “con un animo da turchi”, cioè scendendo al loro stesso livello, puntando su una semplice rivalsa politico-militare, speculare allo stillicidio delle offese subite.
La sfida nella quale ci si era introdotti aveva portato a piena evidenza le crepe che si annidavano nel corpo consunto di una tradizione decaduta: quella del vecchio mondo cristiano. Si poteva richiuderle solo accettando di misurarsi con l’appello alla conversione delle coscienze e dei costumi collettivi che veniva dalla dura prova dei fatti, per restaurare su più solide basi la salute di un organismo malato. Si era chiamati a riformarlo risalendo alle autentiche sorgenti primigenie del suo ethos distintivo, dal momento che l’unica via di uscita veramente feconda era l’instaurazione di un regime di condotta rinnovata secondo il luminoso modello evangelico. Nella drammatica resa dei conti sospesa in bilico tra la sopravvivenza e la morte non bastava reagire con le armi della diplomazia, con i maneggi della connivenza, l’arte del raggiro e l’abile strumentalizzazione, al limite nemmeno con il solo attacco frontale di una guerra sanguinosa, dall’esito comunque molto incerto.
All’assalto aggressivo dei detentori di una forza che si immaginava fondata sulla pura logica della volontà di conquista era necessario rispondere, in primo luogo, con lo scudo di difesa dell’emendatio vitae (la “purificazione della vita”): l’unico in grado di garantire una vera capacità di resistenza e lo spalancamento futuro a una possibilità di vittoriosa riaffermazione dei propri valori, messi temporaneamente sotto scacco, abilitando alla ricostruzione di un nuovo edificio che avrebbe potuto giovarsi anche delle macerie accumulate ai bordi di un cammino tutt’altro che segnato da esemplare coerenza rispetto agli ideali proclamati. Senza l’approdo a una “vita migliore”, al contrario, persino la più massiccia potenza muscolare degli eserciti cristiani era condannata a precludersi ogni sbocco risolutivo. E a questo deciso salto di qualità occorreva predisporsi in tutta fretta, perché, sempre a parere di Erasmo, la situazione non lasciava assolutamente intravedere segnali di adeguata consapevolezza sulla natura sostanziale della posta in gioco: “Quanto al raccogliere le forze per la guerra, si trovano molti che se ne fanno diligente scrupolo, diversi si preoccupano dei comandanti da reclutare e degli armamenti a cui affidarsi, ma della necessità di cambiare in meglio l’esistenza, che è la chiave di volta dell’intera impresa e riguarda, allo stesso titolo, la responsabilità di tutti, devo riconoscere che non vi è quasi nessuno che si preoccupi”.
Il giudizio formulato da Erasmo può sembrare improntato a un pessimismo eccessivo, marcatamente ingeneroso. Ma era un giudizio lontano dall’essere l’espressione di una opinione isolata.
(1 – continua)
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