Il 7 settembre 1944 un episodio dà un esempio del clima del tempo ed anche della casualità di certi fatti: il parroco di Masera don Bandoni ottiene di poter andare con un camion messo a disposizione da un’azienda locale fino a Cressa (tra Borgomanero e Novara) per tentare di recuperare della farina per la popolazione – che era ridotta veramente alla fame – e per farlo ottiene un lasciapassare dal comando tedesco ma, perché il camion non venga saccheggiato dai partigiani, ottiene di poter essere accompagnato ufficialmente in cabina dallo stesso maggiore Superti, capo partigiano di cui abbiamo già parlato e così, con questa sorta di duplice lasciapassare, passa indenni i contrapposti posti di blocco.



Il camion rientra il successivo giorno 8 settembre ed all’arrivo don Bandoni ha notizia che nella notte il presidio del paese (18 tedeschi ed 8 fascisti) era stato attaccato dai partigiani. La situazione era nel frattempo entrata in una fase di stallo: circondati ma non arresi, i fascisti non volevano deporre le armi. Il parroco fa la spola tra le due parti, ma alle 18 inizia un violento fuoco contro la casermetta. Poco dopo gli giunge un biglietto: i partigiani sospenderanno il fuoco ma tratti la resa. Inizia quindi la trattativa ed alla fine i 18 tedeschi vengono inviati in Svizzera via treno, i fascisti sono autorizzati a raggiungere Domodossola ed i partigiani di “Arca” entrano in paese.



Intanto il prevosto di Domodossola, un suo coadiutore e poi lo stesso don Bandoni (Masera e Domodossola distano tra loro non più di tre chilometri) iniziano una trattativa più importante con il capo della piazza tedesca, tenente Cleps, che era ricoverato in ospedale, ed il capo locale delle formazioni della milizia fascista, il maggiore Bronzi. Sulle prime i due responsabili rifiutano proposte di resa, poi si rendono conto che Domodossola è in pratica completamente circondata, che verso sud le strade e le due linee ferroviarie sono bloccate, che resistono solo i presidi all’ingresso del capoluogo.



Passa la notte tra l’8 ed il 9 settembre: la trattativa si allarga al commissario di P.S. della città dott. Pinelli ed al sig. Maffi, commissario del fascio repubblicano di Domodossola. Per parte partigiana intervengono il maggiore Superti, il capitano Di Dio ed il comandante “Arca” della “Piave”, un gruppo partigiano politicamente orientato verso il partito liberale che operava in Valle Cannobina sopra Cannobio.

Giunge intanto notizia che il presidio fascista di Piedimulera è stato sopraffatto e vi sono stati 6 morti, ma – nel contempo – che da Verbania i fascisti della “San Marco” hanno iniziato a risalire la sponda occidentale del lago Maggiore verso Cannobio e potrebbero prendere d’infilata i partigiani, tanto che Superti abbandona il tavolo delle trattative per controllare la minaccia. Prevale il senso della misura e la consapevolezza tra i fascisti che trattare con gli “autonomi” è comunque possibile, mentre ben diversa sarebbe la situazione se davanti a loro ci fossero i comunisti.

Alla fine si preparò un accordo: onore delle armi a fascisti e tedeschi, esodo autotrasportato dei militi fascisti non verso la Svizzera ma verso sud a cura delle forze partigiane, libertà della popolazione civile che volesse seguire la colonna militare a poter abbandonare la zona senza rischi per le persone ed i beni. Contestualmente le bande “autonome” sarebbero scese in città prendendo subito posizione a difesa dell’abitato.

Alle 17.50 iniziò la tregua d’armi – segnalata da un razzo fumogeno – mentre ai presidi fascisti di Varzo ed Iselle si dava il permesso di scendere a Domodossola. L’incontro definitivo avvenne poche ore dopo in località Croppo di Trontano, presenti alcuni capi partigiani tra cui il leader Dc Eugenio Cefis, il maggiore Bronzi e due tenenti tedeschi, tre sacerdoti guidati dal prevosto di Domodossola, il già citato don Luigi Pellanda. L’intesa difficile fu sul punto delle armi, ma alla fine si raggiunse un accordo: ai tedeschi si lasciavano solo quelle tedesche, ai militi della Guardia nazionale repubblicana l’armamento personale ed una mitragliatrice. I mortai disponibili sarebbero passati ai partigiani che si impegnavano a difendere Domodossola (da chi, se non dalla prevedibile discesa delle bande Garibaldi?, ndr). L’autocolonna doveva essere pronta per l’indomani 10 settembre, alle 6 del mattino.

Il 10 settembre

L’autocolonna mosse in realtà verso le 7.30 con oltre 700 persone tra militari e civili prendendo la via del Lago Maggiore, ma non per la larga e più comoda statale del Sempione, bensì attraverso la provinciale di Beura. Il motivo era evidente: i partigiani comunisti non sapevano nulla degli accordi e la colonna non sarebbe così passata da Villadossola (ai piedi della Valle Antrona, occupata dalla Garibaldi) ma solo a qualche chilometro di distanza, ed infatti non venne minimamente disturbata tanto da giungere a Gravellona (25 km più a sud) nel bel mezzo di uno scontro armato, come vedremo più oltre.

Il risentimento dei partigiani comunisti fu subito evidente e ben traspare dal libro Il Monterosa è sceso a Milano scritto nel dopoguerra dai leader Pci Moscatelli e Secchia.

Partiti i fascisti ed i tedeschi da Domodossola, don Pellanda, don Luigi Zoppetti, Superti, Di Dio e Cefis decisero di dar immediatamente vita ad una “Repubblica dell’Ossola” anche per mettere Moscatelli davanti al fatto compiuto; procedettero pertanto a formare una “giunta di governo” con in netta maggioranza (6 membri su 7) elementi anticomunisti. A farne parte vennero infatti chiamati i componenti del Cln di Domodossola (uno per partito politico) mentre a presidente venne designato il prof. Ettore Tibaldi, un socialista di antico stampo, già primario dell’ospedale di Domodossola ed espatriato clandestinamente in Svizzera nel gennaio precedente.

(4 – continua)

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