Le recenti polemiche sulla rinascita del neofascismo, subito sopite all’indomani dei turni di ballottaggio, hanno un elemento di verità: e cioè che taluni nostalgici della dittatura non sembrano aver ben compreso cosa sia accaduto all’Italia durante la guerra. Nel senso che il destino della nostra nazione appare, per i suddetti nostalgici, indissolubilmente legato al quello della Germania nazista. E valga questo esempio.



Recentemente, discutendo con un anziano e distinto signore del secondo conflitto mondiale, lo sentii dire che nel 1941 la guerra, per l’Italia, stava ancora andando bene. Sobbalzai e obiettai che a metà del 1941 avevamo rimediato una pessima figura in Grecia, perso la X Armata in Libia e l’Africa Orientale italiana era già stata quasi tutta conquistata dagli inglesi. Nessuna replica da parte del distinto signore: perché il dramma dei nostalgici del fascismo è che non vogliono capire che, nell’autunno del 1941 la guerra, per l’Italia, era già persa.



Napoli era bombardata il 22 e il 25 ottobre. Lo stesso bollettino di guerra n. 507 ammetteva danni ingenti alla città con un bilancio di 14 morti e 27 feriti “tra la popolazione civile, la quale ha tenuto un contegno ammirevole per calma e disciplina”. E questo era solo l’inizio.

Le privazioni e la penuria di generi alimentari si aggravavano ogni giorno di più. La tessera annonaria prevedeva una razione giornaliera da consumare e non aveva validità retroattiva: nel senso che, se un certo giorno non veniva usata, non si poteva recuperare la prestazione. E qui lo spiritaccio romanesco si scatenava in battute sarcastiche all’indirizzo del regime: il Campidoglio diventava il Campidaria; e siccome, causa il dimagrimento forzato, bisognava praticare un ulteriore foro alla cintura dei pantaloni, quello era diventato il “foro Mussolini”.



Certamente anche in altri paesi la situazione non era brillante se non addirittura molto più tragica di quella italiana. In Russia la Wehrmacht aveva sferrato l’offensiva “Tifone” con obiettivo Mosca a partire dal 1° ottobre. Ne erano seguiti combattimenti giganteschi e nuove disastrose sconfitte dell’Armata Rossa con centinaia di migliaia di prigionieri. La capitale sovietica sembrava ormai indifesa, ma i russi continuavano a combattere e a resistere con un coraggio sovrumano.

In Giappone il primo ministro Konoye aveva dato le dimissioni dopo il fallimento delle trattative con gli Stati Uniti, ma anche il nuovo premier, il generale Tojo, esitava a scatenare la guerra. Nell’Atlantico il cacciatorpediniere statunitense “Reuben James” era stato silurato il 30 ottobre e affondato da un U-Boot tedesco: un altro passo verso la discesa in guerra degli Stati Uniti con tutto il loro immenso potenziale economico e militare. In altre parole, Hitler, Stalin, Churchill, Roosevelt e Tojo stavano gestendo il più grande conflitto della storia umana e ne erano consapevoli.

Di fronte ad essi Mussolini appare davvero ben poca cosa e lo si rileva dalla lettura del diario del ministro degli Esteri, Galeazzo Ciano. Era necessario concentrare tutte le nostre forze per conservare i collegamenti con l’Africa settentrionale, specie tenendo presente che le perdite in naviglio mercantile erano schizzate dal 5 al 18%. Invece l’Italia doveva impiegare numerose divisioni in Jugoslavia e in Grecia, dove la carestia stava uccidendo per fame un’intera nazione. In Sicilia la situazione alimentare era gravissima, ma il Duce, come misura disciplinare, aveva fatto allontanare i funzionari statali siciliani dall’isola trasferendoli nel Nord Italia.

Non solo: persuaso che la guerra fosse ormai vinta (senza che Tobruk assediata venisse conquistata), Mussolini invidiava il sanguinoso successo dell’esercito romeno che aveva conquistato Odessa e voleva inviare ben venti divisioni in Russia. Un numero di grandi unità che l’Italia non aveva, ma che il generale Cavallero aveva garantito.

Contro questo progetto si mossero in molti, dagli stessi gerarchi fascisti fino al re Vittorio Emanuele: era sempre più evidente che, se la Germania avesse vinto la guerra, l’Italia ne sarebbe stata vassalla ed era perciò importante mantenere una riserva per bilanciare le pretese germaniche. Ma Mussolini non cedette sul punto e solo di fronte a una revisione dei conti da parte dello stesso Cavallero si persuase a inviare “solo” altre sei divisioni. Giuseppe Bottai ebbe a dire a Ciano il 21 ottobre: “Il Duce è decaduto intellettualmente e fisicamente. Non è un volitivo: è un velleitario che vuol essere adulato, lusingato e ingannato”.

In questo clima di crescente sfiducia gli italiani continuavano a combattere, come il tenente Giulio Cesare Graziani, nativo di Affile, in provincia di Frosinone. Parente del maresciallo sconfitto vergognosamente dagli inglesi, era ben diverso da questi, battendosi eroicamente fin dall’inizio del conflitto. Nel settembre 1940 era già stato decorato con una medaglia d’argento per le azioni di bombardamento in Africa Orientale. Il 16 dicembre 1940 venne attaccato mentre era in missione isolata. Con l’aereo crivellato di colpi da due caccia inglesi Hurricane, Graziani vide morire due uomini del suo equipaggio e, colpito da un proiettile al collo, perse i sensi precipitando per 4mila metri. Ripresosi all’ultimo momento riuscì a raddrizzare l’apparecchio e, con il serbatoio a secco, fece un atterraggio di emergenza nel deserto.

Qui Graziani e i suoi uomini si difesero per una notte intera dall’attacco degli sciacalli fino ad essere recuperati il giorno dopo. Solo in ospedale all’Amara ci si accorse che Graziani aveva un proiettile conficcato tra la seconda e la terza vertebra cervicale. Dopo un delicato intervento chirurgico e una lunga degenza ci si aspetterebbe che il ventiseienne Graziani ne avesse avuto abbastanza. E invece il 1° agosto 1941 entrava nella 281esima squadriglia aerosiluranti comandata da Carlo Emanuele Buscaglia.

Il 13 ottobre, assieme a Carlo Faggioni e Giuseppe Cimicchi attaccava la flotta britannica passando rasente la nave da battaglia “Barham”. Fu in questa occasione che gli venne conferita la medaglia d’oro al valor militare; decorazione condivisa anche con Buscaglia, Faggioni, Cimicchi e altri ancora. Uomini che non consideravano le meschinità, le nullità del potere; che sapevano bene che la guerra era persa ma, più di tutto, contava il potersi guardare allo specchio ed essere felici di aver fatto ben più del proprio dovere.

Mussolini non contava; contava il proprio onore di soldato funzionale a quello del proprio paese.

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